sabato 31 marzo 2007
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Una vita che sono due - I |
3 marzo
Domenica mattina
Seduta in cucina, in una mano la tazza di caffè, nell’altra la sigaretta. La lettera è aperta sul tavolo. Il finale lo conosco a memoria:
“…Non sento più nessun dolore. Io, alla fine, ci sono riuscito a ribellarmi, definitivamente. M.”
Ancora mi chiedo come ho potuto non essermi accorta di quanto stava accadendo, non aver capito, non essere riuscita ad aiutarlo e il senso di impotenza provato in passato riemerge doloroso. Due anni in cerca di una risposta che forse non c’è.
Ripiego la lettera. La metto via. Sonno, tanto sonno. Il richiamo del letto è come il canto delle sirene.
Finisco l’ultimo sorso di caffè, infilo la tazza nell’acquaio, spengo la cicca sotto il getto dell’acqua. Mi dirigo a passo deciso e testa bassa verso il bagno “porcaputtana! basta! Devo uscirne… o non ci levo più le gambe”
Di fronte alla porta della camera mi fermo come davanti ad uno Stop. Guardo il letto, il mio rifugio “dai, non farti fregare. Un piccolo sforzo…” passo oltre… “bene, ce l’ abbiamo fatta”
Apro la doccia, mi spoglio, osservo la mia immagine riflessa nello specchio. Provo un senso di disagio… di non appartenenza: come aver di fronte una sconosciuta. Lo sguardo percorre i contorni del viso, dalla fronte fino al mento, poi risale e arriva all’appuntamento con gli occhi, li scruta cercandone il fondo. “Chi sei?”
Sullo specchio appare una scritta fosforescente a caratteri cubitali: “DIMMELO TU”
Un’esplosione al centro dello stomaco “ecco! ci siamo: la pazzia al galoppo!” Vacillo, ma solo per un istante. Mi stupisco nel sentire la mia voce, balbettante, uscire dalle labbra: “Non … non lo so più, mi sono persa di vista. Il tempo mi è passato addosso… ed io non me ne sono nemmeno accorta e ora…” ho parlato e non so che diavolo ho detto
Di nuovo la scritta:
“Primo, il tempo non esiste e quindi non “passa”, siamo noi che ci passiamo in mezzo. Secondo, è arrivato il momento di ritrovarsi. Quindi vediamo di darsi una mossa! È domenica mattina, fuori c’è il sole e in piazza c’è un bel mercatino”
Ok! quando il gioco si fa duro… Mi lavo e mi vesto in fretta. Esco.
Mi incammino per le viuzze del centro piene di gente e di vita. In piazza Santo Spirito c’è il mercatino lo specchio aveva ragione
Eccolo lì con tutti i suoi colori, le voci, gli odori e la merce di ogni genere e provenienza
E’ sempre lo stesso, da anni e anni: stessi ambulanti, stesse bancarelle sistemate sempre negli stessi spazi prestabiliti, gli stessi oggetti… Forse un po’ noioso, di certo rassicurante.
Prima bancarella, quella dei fiori. Il profumo entra prepotente nelle narici, lo inspiro estasiata. Uno starnuto mi scuote dalla testa ai piedi, gli occhi mi bruciano. Allergia da polline. Mi allontano velocemente.
Davanti al banco dei prodotti etnici, mi fermo, rapita dalle tinte dei vestiti, le maglie i cappelli e le sciarpe di lana, fatte a mano. Intorno un intenso odore di pathciuli…
Riprendo a camminare, spulcio tra le robe in bella mostra. Il mercato brulica di gente che, come me, guarda tocca annusa cammina si incontra e si saluta; si ferma per due chiacchiere e poi riprende la passeggiata… senza fretta. Ogni cosa, intorno, sprigiona una lentezza innaturale, e mi viene in mente la scena di un film al rallentatore
Sul banco dell’abbigliamento usato mucchi di vestiti gettati uno sull’altro senza ritegno
Prendo in mano una gonna strana, lavorata ai ferri con lana grossa e soffice, molto particolare. La guardo bene e mi accorgo che è un poncho, probabilmente anni 70, ne avevo uno simile, fatto a mano da mia zia.
Di nuovo uno starnuto… allergia da ricordi. Da sotto una pila di giubbotti e sciarpe spunta la manica di una camicetta viola. Riesco a tirarla fuori, la controllo rigirandola tra le mani. E’ carina, chissà chi l’ ha indossata, chissà com’era quella donna, chissà se vive ancora; aveva gli occhi chiari oppure neri, era alta o piccolina, aveva figli, era felice, com’era la sua vita. Quasi quasi la prendo. Poi ci ripenso: ha un vistoso rammendo sulla spalla destra. Sto per ributtarla sul banco, quando…
Una voce maschile, dura rabbiosa e disperata mi grida qualcosa. E’ dietro le mie spalle. Mi volto di scatto, ho la prontezza di schivare il coltello che la mano dell’uomo sta puntando al mio viso ma non riesco ad evitare che la lama affondi nella spalla. Il sangue scorre sulla camicetta strappata
Mi metto a correre, lui mi insegue. Sento che non ce la farò mai. E’ la fine “Aiuto…qualcuno mi aiuti !”
“Che fa, la prende?” il venditore mi sta dicendo qualcosa, indicando la camicetta ma io non sento la sua voce e devo avere un’espressione da ebete. Il venditore insiste “Allora, che fa, la prende?” . Adesso sento benissimo “Oh, no, no grazie”. Un po’ imbarazzata me la filo di pedina.
Alla mia destra la bancarella delle saponette “a taglio” fatte artigianalmente, devo farne rifornimento; una al profumo di muschio bianco, un paio di quelle alla canapa, un vagone di quelle ai cinque oli che lasciano la pelle liscia come il culetto di un neonato. Poco più in là il signore delle candele, con il suo banchino stracolmo. E’ molto anziano, ha la barba bianca e lunga, saranno almeno vent’anni che lo vedo al mercato. Ha un negozietto dietro l’angolo dove crea e vende le sue candele di ogni forma e colore. Un vero artista, uno degli ultimi artigiani, purtroppo destinato a sparire, come tutti gli altri che fino a pochi anni fa caratterizzavano il quartiere, cedendo il posto a improbabili negozi. Ad esempio quelli di abbigliamento arredati in modo essenziale, talmente essenziale che non c’è nulla, tranne due commessi dal viso bianco e magro che ti guardano perplessi e capisci che vendono abbigliamento soltanto perché in vetrina c’è una maglietta strappata, appoggiata sul pavimento, con il cartellino del prezzo. Oppure i bar di tendenza dove trovi di tutto: dalla sauna al massaggio alle gallette biologiche, i frullati di verdure, gli aperitivi … ma se ci entri e chiedi un caffè ti guardano come se tu fossi un marziano. Guardo il signore delle candele e provo un senso di tenerezza, non soltanto per lui ma anche per le cose che vanno e che non tornano più
Mi sfilo il trench, inizia a far caldo. Finalmente un po’ di sole, lo adoro… soprattutto quello di primavera, carezzevole e tiepido: scalda ma non brucia, abbraccia ma non opprime…
giovedì 29 marzo 2007
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Primo |
di Alice
Lei era lì, precisamente dove avevo immaginato fosse, mentre stavamo discutendo al telefono poco prima.
Non piangeva più. Io comunque mi ero accorto del cambiamento del suo tono di voce alla cornetta.
Domandarle il motivo era inutile: non voleva mai dirmi i pensieri che le frullavano in testa e tutte le fantasie che si creava da sola non facevano che peggiorare la mia situazione, senza che potessi intervenire per difendermi.
Lei era lì, immobile. Sono sicuro si aspettasse il mio arrivo precipitoso, poiché molte altre volte l’avevo minacciata a causa della testardaggine che dimostrava nel non voler mai mettermi al corrente dei suoi pensieri.
“Scusa” dissi. La prima parola che mi venne in mente, anche se ero non ero per niente convinto di dovermi scusare. Perché mai avrei dovuto chiederle scusa. Qualcosa avevo fatto, questo era certo, ma perlomeno volevo sapere cosa. Non sopporto chi piange senza spiegarne il motivo.
Lei, zitta.
Io ero rimasto in piedi con la porta alle spalle.
Dalla finestra socchiusa entrava un leggero soffio di vento, non più tanto caldo come i mesi passati, ma piacevole: smuoveva i petali delle rose messe a centrotavola. Erano l’unica cosa che si muoveva in quella stanza. Anche il mio cuore era fermo. Ne sono certo, e di sicuro avevo anche smesso di respirare.
Continuavo a chiedermi cosa stesse pensando. Non mi guardava, non parlava, non si muoveva.
Mi sentivo in imbarazzo, come ad una cena dove tutti, tranne l’unico sfortunato, si conoscono e parlano fra loro.
Feci un passo nella sua direzione, poi un secondo ed un terzo.
Avevo l’impressione che si stesse allontanando da me, tanto sembravano infiniti i passi che mi separavano dalla sua poltrona. Mi sedetti di fronte a lei sul pavimento: gambe incrociate, gomiti sulle ginocchia ed il viso appoggiato sui palmi delle mani. Gli occhi fissi verso i suoi che, vuoti, fissavano il muro.
Stavo cercando di capirla. O almeno ci provavo.
Passai quindi ad osservarla con attenzione: la fronte alta, gli occhi lucidi, privi della solita luce, il naso piccolo, la bocca mezza aperta e le guance rosse rosse per il lungo pianto.
Avevo tante cose in testa. Mi venne da pensare al fatto che non osserviamo mai attentamente le persone che ci sono vicine; ci limitiamo a vivere giorno dopo giorno al loro fianco incrociando spesso il loro sguardo, ma fermandoci raramente a fissarne gli occhi.
Avrei voluto stringerla forte a me, per consolarla e forse non aspettava che questo, ma nessuno dei miei muscoli volle muoversi.
L’espressione del mio viso doveva essere molto sciocca giacché la sua risata improvvisa mi risvegliò dai pensieri.
“Perché ti comporti così?” le chiesi.
“Non pensavo che l’avresti fatto” mi rispose. Come al solito mi ascolta.
“Cosa?” le domandai.
“Di venire fin qui. Domani hai un esame, è tardi ed i tuoi saranno furiosi.”
“Te l’avevo detto. Perché piangevi prima, a telefono? È colpa mia, vero?”
Ci mise un po’ a rispondere, ma quando aprì bocca mi disse che era molto nervosa e stanca a causa della giornata stressante che aveva avuto. Nuova questa.
Allora azzardai una domanda alla quale al contrario di quello che pensavo, rispose subito, turbandomi alquanto.
“Sei sicura che è solo stanchezza. Perché non voglio farti stare male per comportamenti che nemmeno mi accorgo di aver avuto e che non mi dici. Non è che se andiamo avanti così, ti stancherai presto di me?”
“Può essere” rispose. Mi lasciò secco. Poi continuò: “Ma oggi hai fatto un gesto stupendo e ti perdono, quindi non preoccuparti.”
‘Allora qualcosa ho fatto’ pensai ‘è colpa mia!’. Quello che ora mi diceva non concordava affatto con la storia dello stress.
Istintivamente mi gettai verso di lei e l’abbracciai. Ero rimasto in ginocchio sul pavimento, e non me ne ero nemmeno accorto.
Non dissi altro. Pensavo solo che quella sera era andata così. E non ero ancora riuscito a capire cosa sbagliassi con Caterina.
Un movimento dall’interno della casa mi fece tornare alla realtà.
Come stavo bene abbracciato a lei. Non mi ero nemmeno accorto della presenza di Andrea che si era appena affacciato dall’altra stanza.
Non so spiegare se quello che provavo era imbarazzo o gelosia.
Ogni volta che lei stava male, aveva bisogno di un conforto e tutte le sante volte che noi due discutevamo, lui era lì.
È ovvio che essendo il suo vicino di casa, amico di infanzia, compagno di scuola nonché confidente fidato era sempre il primo ad arrivare.
Ma non pensavano minimamente a come potevo sentirmi io? Dopotutto Caterina era la mia ragazza e doveva venire da me per ogni problema.
Che fossi solo un passatempo per lei? Non mi riteneva capace di saperla confortare ed ascoltare?
Che tristezza vederlo lì con quel sorrisetto idiota da vincitore.
Non erano solo mie impressioni come diceva Caterina: quello ci trovava piacere nello screditarmi di fronte ai suoi occhi.
Da uomo e con molta indifferenza mi alzai per andare a stringergli la mano.
“Come va bello?” mi disse. ‘Bello’ mi disse! Che pugno gli avrei tirato su quella faccia a ragazzo per bene. Sempre ben vestito, ben rasato, il primo della classe insomma.
A ripensarci meglio non era poi così brutto: più alto di me, capelli biondi portati sempre più lunghi di come li imponeva la moda ma ben pettinati, occhi verdi e tono di voce prefetto per ogni occasione.
Continuavo a chiedermi perchè Caterina che aveva un vicino di casa come lui era venuta a cercare uno come me e contenta diceva a tutti che stavamo insieme. Non ero poi una gran bellezza: i capelli e gli occhi facevano a gara a chi fosse più scuro ed invisibile di notte e poi impiastricciavo i colori degli abiti vestendomi sempre male.
“Bene. Te?” risposi.
“Tranquillo. Stavo ripassando le ultime cose per domani ma ho sentito Caterina sbattere il telefono e piangere e sono corso subito qui”.
Aveva detto quattro cose che mi avevano messo in cattiva luce e continuava. Ogni sua parola mi dava fastidio. Cosa potevo fare io? Dopotutto per arrivare a casa loro dovevo percorrere più di dieci chilometri.
“Quando ho aperto la porta” disse. Già, lui ha le chiavi di casa di Caterina. Anche questa poi: i genitori fuori casa per qualche giorno e le chiavi di casa le hanno date ai vicini.
“Quando ho aperto la porta” continuò lui “Caterina era sulla poltrona raggomitolata e singhiozzava. Le ho portato un po’ d’acqua e mi sono seduto al suo fianco per consolarla. Ha ripreso a piangere più intensamente di prima. Non sapevo cosa fare e l’ho stretta forte”. Fece una pausa per riprendere fiato.
‘Come puoi restare fermo e zitto quando un altro viene a dirti queste cose?’ pensai. Stavo cominciando ad odiare anche me stesso.
Caterina non poté sentirci perché era in cucina a fare non so che cosa, le sue solite tisane anti-stress o anti-age, di sicuro.
“Grazie” gli dissi. Un’altra volta quel ‘grazie’ del cavolo: e poi a lui.
“Non c’è di ché amico” mi rispose e mi mise una mano sulla spalla. “Ora rientro, sei arrivato, posso tornare ai miei studi. Ciao bello.”.
Quanto mi innervosiva.
“Alla prossima” lo salutai anche io. Certo che fenomeno anche io, pensavo una cosa e gli rispondevo al contrario.
Chiuse la porta e Caterina tornò dalla cucina con tre tazze fumanti.
“Andrea?” domandò.
“E’ tornato a studiare” le dissi ed allungai il braccio per aiutarla.
“Dovresti farlo anche te” mi rispose con tono ironico lasciando scivolare il manico di una tazza tra le mie mani, un’altra la appoggiò per terra e soffiando in quella che le era rimasta in mano mi accompagnò col braccio fino a farmi sedere sulla poltrona, poi si accovacciò sulle mie ginocchia.
Restammo in silenzio finché non finimmo entrambi di bere.
Poi la accompagnai nella sua stanza e rimasi con lei fino a quando si addormentò. Le diedi un bacio sulla fronte e venni via. I pensieri facevano a pugni nella mia testa.
Chiudendo il cancello mi voltai e nella stanza di Andrea una luce era ancora accesa.
“Un punto a suo favore’ mi dissi preoccupato.
“Un’altra volta!” urlò mia madre.
“Quando metterai la testa a posto e capirai che per far strada nella vita e diventare qualcuno devi fare l’università e passarli, gli esami!” continuò mio padre, più furioso ad ogni frase.“Sempre la stessa storia. Devo pagarti gli studi perché tu continui a fare il fannullone tutto il giorno e non ti impegni come si deve! Guarda me e tua madre: abbiamo due lavori rispettabili. Te! Teee! Mi vuoi dire cosa hai intenzione di fare nella tua vita oltre che non studiare mai!”.
Era talmente accaldato dallo sforzo di aggredirmi che pensavo gli scoppiasse la testa con tutti i pochi capelli che gli erano rimasti sopra.
“Ma io faccio del mio meglio. Se è successo è perché era destino.” Dissi in mia difesa.
“Si?? Allora dì al tuo destino di farti impegnare di più.” Mi rispose lui.
Credevano forse che mi divertiva bocciare un esame.
Ero in classe, guardavo le mie mani mentre, impacciate, sudaticce, erano immobili sul foglio bianco del compito in attesa che dal cervello, dalla mia testa arrivasse un segnale.
Ho fatto cilecca, e allora? Dovevo dare colpa alla mia mano o al mio cervello?
“Dopotutto è colpa tua.” Mi dicevano i miei.
Loro però non si accontentavano dei miei risultati. Non erano contenti di niente che facessi io: la scuola, il tempo che passavo o meno a studiare, il mio abbigliamento; l’unica cosa di cui non si erano mai lamentanti era Caterina, come persona intendo, perché comunque secondo loro passavo troppo tempo con lei a distrarmi.
“Ma allora non devo vivere ma studiare, e basta” risposi. L’avessi mai detto! Ecco che ricominciò col solito discorso che lui alla mia età era riuscito a fare tutto: ‘conciliare’, come diceva, studio amore e anche la-vo-ro.
Ogni volta che ripartiva con questa solita lagna aumentava il tono di voce per sottolineare ogni singola sillaba.
Basta, non potevo più sopportarlo per quella sera.
Presi la bicicletta e, alla stazione, il primo treno che passava.
martedì 27 marzo 2007
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Della scrittura sboccata! Perchè lo scrittore e il lettore non sospendono il giudizio |
Ho visto alcuni commenti ad uno dei miei racconti: Legittima difesa! E' vecchio e l'ho pubblicato (era già su Femminismo a Sud) proprio per vedere che tipo di reazioni suscitava. Mi sembra che abbia sconvolto i lettori. L'ho letto in pubblico e anche lì ha sempre suscitato sentimenti fortissimi e opposti.
Mi rendo conto che in questo caso non conta più la forma, la tecnica (che pure sicuramente non è perfetta). Conta l'argomento. Conta il contenuto. Contano le parole. Perchè al di la' di ogni bella storia che possiamo raccontarci sulla buona letteratura poi alla fine conta soprattutto l'abilità di emozionare o indignare o sconvolgere. Oppure conta il fatto che ci si misura sempre con degli enormi pregiudizi. Questo mi dimostra che sia quando siamo scrittori che quando siamo lettori siamo sempre politicizzati. Siamo pieni zeppi di pregiudizi e di chiusure morali. Una storia come quella che ho scritto può far venire fuori commenti come: "poteva essere scritta in modo più discreto, meno sboccato. poteva giocare con ipocrisie e eufemismi. poteva usare più stile..."
tutto questo, secondo il mio umilissimo parere, altro non è che un modo per mascherare, dissimulare la brutta sensazione che ci deriva dal sentirci disturbati, feriti a sangue, aggrediti, violentati. Anche le parole possono essere violente. Anche le parole possono "sfondare" (e uso sfondare piuttosto che oltrepassare apposta) il velo del moralismo, dell'ipocrisia, del pudore, del perbenismo, di certo buonismo, di un concetto virginale e opaco del fare e del recepire letteratura.
Una letteratura "perbene" per gente perbene. Una letteratura pudica per gente pudica. Una letteratura ipocrita per lettori impauriti, terrorizzati dall'idea di poter leggere svelata, spiattellata, una verità cruenta che non vorrebbero mai fosse rappresentata con parole altrettanto cruente.
Adoro le sottigliezze. Amo infinitamente forme acute dello scrivere. Temo però che la letteratura ci stia educando malissimo. Che abbia inflitto a ciascuno di noi la condanna della censura e dell'autocensura. E' una proposta di dibattito. Per non scivolare in un conformismo opposto. Per invitare a non storcere il muso dinanzi ad esercizi letterari boccacceschi. Perchè non si liquidi tutto come "questioni di stile" o "questione di gusti". Quello che per alcuni è "pessimo gusto" per altr* può sempre essere qualcosa di "diverso, non scontato, a volte originale". Parliamone senza sentirci all'Accademia della Crusca :)
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III - De Gustibus |
Esco per strada e rimango fermo di fronte alla vetrina del negozio di piante. Il fioraio sta confezionando una composizione variopinta. Guardo il mio riflesso e per l’ennesima volta da quando sono uscito dallo studio dentistico tiro fuori la lingua. Il fioraio si volta e pensando che le linguacce siano rivolte a lui mi sillaba un chiaro vaffanculo.
“Ehi!”
Torno alla realtà al suono della voce di Fabio.
“Scusa, sono in ritardo.”
Guardo l’orologio e scuoto la testa. Avevo dimenticato di aver fissato con Fabio e Luca all’uscita del dentista per un caffé.
“Che c’è? C’hai una faccia!”
Non mi dà il tempo di rispondere e continua:
“Luca ha detto di aspettarlo al bar, così intanto ci prendiamo una cosa…”
Apro la bocca per parlare, ma con Fabio non è così facile. Tirandomi per un braccio, continua il suo flusso di parole:
“Andiamo da Cosi, ho voglia di una torta al semolino.”
“Fabio…”
E’ la prima parola che dico dopo l’esperienza surreale che ho vissuto e mi sembra che esca fuori correttamente, senza inceppamenti o problemi di nessun tipo.
“Che poi quella stronza della Giuliana mica mi ha chiamato...”
“Fabio”, ripeto tentando per la seconda volta di dirgli cosa mi è successo.
“Se non chiama entro stasera, ha chiuso con me.”
Passiamo davanti a Ricordi e Fabio mi dice che vuole entrare a prendere un CD. Possiamo?
Non rispondo e rimango a fissarlo inebetito.
“Oh, ma hai perso la lingua?”
Sì, mi viene voglia di gridare, ma ne ho trovata un’altra!
Fabio al solito non aspetta la risposta ed entra nel negozio di dischi lasciandomi sulla porta. Tiro fuori la lingua specchiandomi alla vetrina per il milionesimo controllo. Mi guardo i punti di sutura e mi chiedo come sia possibile. Che poi una volta ho letto che le lingue sono le uniche parti anatomiche che chirurgicamente non si riesce a riattaccare.
Luca passa di lì in quel momento e mi trova a bocca aperta e lingua in fuori.
“Cazzo fai, coglione!”
Luca è quello che tipicamente si definisce uno sboccato. In ogni sua frase infila almeno due parolacce e un’imprecazione.
“Ommadonna, ma ti sei rincoglionito, cazzone?”
“Luca, mi è successo una cosa incredibile.”
Fabio esce dal negozio con una busta in mano e tutte le speranze di raccontare la mia storia svaniscono nuovamente.
“Oh, eccoti, pure tu…via andiamo a mangiarci ‘sta torta.”
Si infila fra me e Luca e ci trascina via.
Entriamo da Cosi e ordiniamo tre caffè e tre fette di torta al semolino.
“Ragazzi”, dico dopo che abbiamo ordinato e ci siamo seduti, “vi devo raccontare una cosa pazzesca. Voi non mi crederete…”
“Un attimo”, mi blocca Fabio, “mi è arrivato un messaggio della Giuliana.”
Spippola il telefono e legge a voce alta:
“Sono stata davvero bene ieri sera, sei un ragazzo speciale con tante doti nascoste. Quando ci rivediamo?”
Luca inizia a ridere accarezzandosi la crapa pelata:
“Grandi doti!!!! La puttana va al sodo e ti fa i complimenti per il tuo nerchione, eh!!!”
Fabio ridacchia, io rimango serio.
La cameriera ci porta quello che abbiamo ordinato. Luca la segue con lo sguardo mentre lei va via sculettando e commenta:
“Troia! Io una botta gliela darei però…”
Un’altra cosa di Luca è che tutte le donne sono puttane, non ci sono eccezioni. Ma una botta lui la darebbe al 90% della popolazione femminile di questo pianeta e se ci fosse vita su Marte anche di quello.
Scuoto la testa e metto in bocca un pezzo di torta. Mastico e non sento alcun sapore.
“’Sta torta non sa di niente.”
Luca e Fabio si zittiscono e riempiono le loro bocche con un pezzo della loro fetta. Luca a bocca piena mi dice:
“Cazzo dici? Il dentista ti ha anestetizzato le papille gustative?”
Fabio ride e aggiunge:
“Ahò bello, è buonissima, come sempre. Ma che c’hai oggi?”
Ingurgito un altro boccone e lo mastico lentamente per vedere se sento il familiare gusto del cioccolato.
Non sa assolutamente di niente.
Bevo un sorso di caffé e non capisco neppure se è zuccherato o no.
Mi alzo di scatto preso dal panico.
“Ahò, ma che ti prende, che c’è?”
Vado al bancone e chiedo alla ragazza a cui Luca una botta la darebbe un panino iperfarcito con melanzane, zucchine e salsa piccante.
Do un morso enorme al panino, ma come mi aspettavo, quando lo mastico e cerco di trovarne il sapore, non sento niente.
La lingua l’avrò anche ritrovata, ma a occhio e croce direi che è difettosa.
sabato 24 marzo 2007
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Legittima Difesa! |
Quando ho partorito mio figlio ho capito che nessuno diceva la verità. Quell’ammasso di cellule senza senso dell’umorismo ha occupato il mio corpo e me lo ha restituito solo quando non gli serviva più. Si è fottuto la mia carne, il mio sangue e si è rintanato dove di solito prende più spazio la merda. E’ cresciuto e io pensavo volesse farmi scoppiare. Invece un bel giorno comincia a organizzare l’evasione e si mette a scavare. A morsi, a pugni, a calci: così allargava la strada. Tutti si preparavano a farlo arrivare nel posto giusto. La cosa più importante era stabilire chi fosse il padre. Poi mi portarono a urlare in un posto senza testimoni. Prima un bel clistere in culo, poi pancia all’aria e cosce spalancate. Non mi hanno lasciato neppure una vita privata. Me l’avevano rubata mentre mi riprogrammavano a fare “colei che ama suo figlio”. La bocca stava paralizzata sull’espressione “soave sorriso” e ogni giorno ripassavo la lezione.
- amore amore amore
- nutrire nutrire nutrire
- curare curare curare
- dare la vita per lui
“Sei felice?” – mi chiedevano. “Certo: essere madre è la cosa più bella del mondo!” – rispondevo con sorriso in funzione [ON]. Lui mi strappava la carne e tutt’attorno si preparava il party dell’anno. Pacca sulla spalla allo spermatozoo efficiente. Carezza riconoscente alla mia scorza d’uovo spezzata.
Di parto si può morire. Ma questo nessuno lo dice. Alcune lo sanno e per convincerle a stare al passo con la produzione hanno inventato un bel sistema: le mamme dormono e qualcuno estrae i figli da un altro buco. Si affetta la pancia che va un tanto al chilo. Come l’uovo di pasqua: lo rompi e esce fuori la sorpresa. L’importante è prenderli tutti. Belli, brutti, sani, malati. Certo sono tutti figli di Dio. Mi chiedevo: se è lui il padre perché cazzo li deve rifilare a tante povere disgraziate come me?
Mio figlio io lo odio. Come si odiano quelli che ti tolgono ogni cosa. Quando lui è nato già i miei diritti non esistevano più. Mi avevano dato solo un periodo di vacanza prima di cominciare. Poi basta. Finita. Non ho mai capito come sono arrivata a fare un lavoro del genere. Senza colloquio. Con un datore di lavoro in incognito che metteva in bocca a tutti ordini perentori:
- Bada a tuo figlio!
- Non senti che piange?
- Non sei una buona madre!
- Insegnagli l’amore… ore!
- Stai attenta a cosa vede in televisione… one!
Io non sono brava a seguire le regole. Però ho scoperto che se rompevo l’uovo prima del tempo ero già un’assassina. Se volevo regalarlo a qualcun’altra: quella si scansava oppure mi faceva sentire talmente di merda da farmi desiderare di morire. Mi sono chiesta: se non faccio figli non servo a niente? Allora ho partorito. Con dolore. E non è quel male che si vede nei film dove qualcuno ti dice: respira! E tu sfiati come un pallone che si sgonfia. No, non è stato proprio così. Piuttosto somigliava ad una enorme cagata. Immaginate uno stronzo infinito che si stacca dalle viscere. Ano e vagina diventano un buco solo. E mentre il parassita sloggia si scorda di rimettere in ordine. C’e’ chi lo fa di mestiere: ripulire i resti, rammendare. Due punti di sutura e tutto torna al posto giusto. Pronta per farne un altro. Ancora uno.
- Bisogna fargli la compagnia! – fa il ventriloquo con la bocca della mia parrucchiera.
Certo, come no. Due cicatrici, due cordoni ombelicali, due culi da pulire, due pance da saziare, due corpi da tenere in vita, due egoisti da soddisfare. Un figlio è già troppo. Così combatto tra riti, funzioni e sensi di colpa.
Mio figlio è un despota. Ha fame, ha sete, si ammala, si riempie di cacca, piscia, rigurgita, vomita. Non è un tamagotchi. Se non fai quello che vuole muore per davvero. Ed è colpa tua, mia. Mai di qualcun altro. Poi “ha bisogno d’affetto”. Non basta dargli da mangiare, da bere, pulirlo, curarlo. Bisogna stare sempre con lui. Non trascurarlo mai. Oppure tutto quello che farà nella sua vita è colpa tua, mia. E’ sempre colpa mia. Quella mattina non smetteva mai di piangere e io volevo solo leggere due pagine di un libro, guardare un po’ di televisione, uscire a prendere un po’ d’aria. Faceva sempre così. Ogni volta che veniva la mia amica urlava come un pazzo e mi toccava prenderlo in braccio e stare tutto il tempo con lui. La mia amica non è mai ritornata. Non avevamo più nulla da dirci. Con le bugie l'amicizia finisce. A lei avevano detto di non dire mai che non sopportava i bambini e a me di non dire mai che mio figlio lo volevo morto.
Io capivo anche che non potevo andare in giro con mio figlio. Disturbava e mi guardavano tutti come per dire: “Che madre di merda! Ma perché non ti tieni il figlio in casa, invece di portarlo dove si discute, si fuma, si fanno cose da grandi…?” Poi c’erano quelle che facevano le solidali. Due grattatine al mento e via. Mai che mi facessero una telefonata, una visita. Non lo capivano che è come stare in carcere: C'e' bisogno di sapere cosa succede là fuori. Serve ripassare l’italiano perché altrimenti non si sa più parlare. Ricordare una risata, essere coinvolta nelle cose perché altrimenti la vita se ne va e hai come l’impressione di non poterla riacchiappare più. Ma il figlio me lo dovevo sucare io, anche se era tutto fuorchè mio. Dicono che è stata una mia scelta. Se è vero, non mi rendevo conto… Non lo sapevo. Nessuno mi ha mai detto la verità. Avevo una sola traccia: ogni tanto percepivo che mia madre di me se ne fotteva. Però mentiva. Le avevano detto di fare così.
Mio figlio non finisce mai. Non chiude, non sta zitto. Non smette mai di chiedere. E fuori c’e’ anche un tempo di merda. Che freddo. Era passato a trovarmi uno. O una. Non è importante. La notizia è che mi ha toccato e io volevo chiudere le orecchie e aprire gli altri sensi. Avevo licenziato quello che se ne occupava prima: sopportava di fare da se’ solo se mi occupavo del figlio. Altrimenti dovevo stare concentrata anche su di lui. Chiedergli di tenersi il bambino per concedermi qualche ora di libertà mi costava un eternità in ricatti e ritorsioni. Quell’uomo era così, non sopportava di essere spodestato. Come mio figlio: strillava se lo lasciavo solo. Gli chiesi di collaborare e lui trovò più semplice scappare.
Mio figlio è in piedi, nella culla. Sta urlando e io voglio finire questa cosa. Mi piace, cazzo. Mi sta toccando e sento umido. Ha finito e mi lascia così.
- Non me la sento di continuare. Il bambino guarda... Ci vede.
- Non me ne fotte niente. Allora cambiamo stanza.
- No, devo andare. Mi sento a disagio.
- Non andare, non lo vedi che sto per morire?
Evidentemente no. Mio figlio non ha problemi, sta bene. Allora deve starmi a sentire: “Che ti ho fatto di male io? Mi spieghi perché mi vuoi uccidere? Non lo sai che ci sono mamme che spengono i figli con i calmanti? Cosa devo fare io?”
Mio figlio un giorno sarebbe diventato uno stronzo più grande. Che altro può diventare uno che nasce con il solo scopo di uccidere sua madre? Quella mattina faceva freddo. Io ero rimasta a letto. La porta appena chiusa. Continuai da sola. Ogni carezza riportava in vita un grammo del mio corpo. Sentivo la mia pelle a spicchi, poco per volta. Avevo portato mio figlio accanto a me e ancora non smetteva di piangere. Poggiai una mano sulla sua bocca e l’altra continuava a procurarmi piacere. Acchiappavo la mia carne pezzo per pezzo. Volevo romperla per entrarci dentro. Il mio respiro era più rapido. Quello di mio figlio di meno. Sentivo i miei muscoli tendersi, piegarsi. Diventavo più forte. Così ho ricominciato ad esistere. Così mio figlio moriva.
Io o lui. Non ho avuto scelta. In ogni caso sarebbe stata colpa mia.Questa è la verità.
mercoledì 21 marzo 2007
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II - L'Importanza delle Lingue |
Quando mi risveglio, per un attimo non capisco dove mi trovo. Poi riconosco la poltrona, la lampada sopra la mia testa, gli strumenti; mi tornano alla mente il dentista con la faccia da tartaruga e la sua assistente e allora ricordo.
La mia lingua!
Provo a muovere le gambe e le braccia e ringrazio il cielo che entrambe adesso rispondono agli impulsi che arrivano dal mio cervello.
D’istinto apro la bocca e cerco con le dita il pezzo di carne che il dentista mi ha strappato con le tenaglie. Inaspettatamente la lingua è lì. Me la tocco e me la ritocco incredulo.
Ma come è possibile se un attimo prima…“Ah, allora è vivo?”, l’assistente spunta da dietro una porta con in mano gli strumenti sterilizzati.
La sua voce è vispa e arzilla e naturalmente ha stampato in faccia un sorriso che le va da un orecchio all’altro.
“Doveva essere davvero stanco per addormentarsi mentre il dottore le faceva l’otturazione. L’ho visto succedere molto di rado.”
Sono senza parole, ma non senza lingua.
Mi sono addormentato? Non riesco a ricordare il momento in cui la realtà ha lasciato il posto al mondo onirico.
“Io..”, balbetto non sapendo che dire.
“Oh, non si deve scusare, può capitare…Se ora vuole alzarsi, l’accompagno alla reception per prendere il prossimo appuntamento.”
Non è un invito, è un ordine. Io mi alzo mio malgrado dalla poltrona e un po’ traballante e del tutto frastornato faccio per seguire la ragazza.
Mi fermo di colpo perché con la coda dell’occhio vedo qualcosa che attira la mia attenzione. E’ una scatolina di metallo piena di…cosa sono? Sembrano fette di arista cruda tagliate molto spesse.
La sederona si volta e nota dove è diretto il mio sguardo. Con una prontezza sorprendente per la sua stazza mi scavalca e corre verso il contenitore chiudendolo con un coperchio. Per una frazione di secondo il sorriso è sparito e un’aria stizzita e vagamente contrariata ha invaso il suo faccione. E’ stato un attimo, ma l’ho notato.
Torna a sorridere amabilmente e mi dice:
“Se vuole seguirmi…”
Vado verso l’uscita in silenzio ma non riesco a smettere di pensare a quelle fette di arista. Cerco di scacciare dalla mia testa l’idea che fossero lingue. Perché lingue è quello che sembravano, magari strappate ai precedenti pazienti. Senza accorgermene torno a toccarmi la lingua per convincermi che dentro la scatola di metallo c’erano davvero fette di arista. La lingua è sempre lì e scuotendo la testa mi dico che la notte devo dormire di più invece di ubriacarmi con quei cazzoni di Fabio e Luca.
“Se le va bene ci vediamo martedì prossimo, così il dottore termina l’intervento…alle 18:00 come oggi le va bene?”
Faccio di sì con la testa, prendo il promemoria che la receptionist mi mette in mano e ancora inebetito per questa esperienza surreale esco e prendo l’ascensore.
Premo “T” e mi volto verso lo specchio ad osservarmi. Ho gli occhi cerchiati e le pupille iniettate di sangue.
Sì, decisamente devo dormire di più.
L’ascensore arriva al piano terra e faccio per aprire la porta. Poi ci ripenso, mi volto di nuovo verso lo specchio e tiro fuori la lingua.
Tutto ok, mi dico. E’ lì al suo posto.
Poi mi guardo meglio. Non so come mai, ma c’è qualcosa di diverso. Non che passi le giornate a fare linguacce allo specchio, ma c’è davvero qualcosa di strano. Cerco di stendere la lingua più che posso e la allungo all’inverosimile.
E’ in quel momento che li noto.
I punti di sutura sono piccoli, ma non invisibili: questa non è la mia lingua.
martedì 20 marzo 2007
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Due, tre, forse quattro |
Due, tre, forse quattro passi, metri, manciate di palmi… la distanza misurata ad occhio, braccia e battiti del cuore che pulsa nelle vene delle tempie facendo rimbalzare gli occhi.
Una faccenda di famiglia da risolvere con lotta, aspra, breve, violenta, fatta di pugni a volare senza mira, di calci senza rincorsa e di morsi che non mollano la presa finché non si smuove la carne sotto i denti o non riesci più a tenere l’apnea per evitare di respirare il sangue che sprizza.
Due, tre, forse quattro minuti di bestiale violenza, rapidi, immediati, come le fiammate di SputaFuoco e assordanti come il fragore del cannone che espelle l’UomoProiettile.
Tutto pareva come sempre, stanca routine di allenamenti fra odore di paglia e schiocchi di frusta. Tutto salvo il guizzo nell’occhio di Matilda, nervosa quella sera, oltremisura.
Salto, posizione, inchino: le solite figure fatte controvoglia; il caso di smettere? Sicuramente si, ma per Regina era lavoro e questo, bene o male, lo si doveva pur fare, con Betty, appesa alle sbarre, a farle compagnia.
Poi, d’un tratto l’ inevitabile, imprevedibile balzo di rabbia, Regina a terra, Matilde sopra di lei.
Per Betty solo una cosa, senza pensare.
Due, tre, forse quattro vampate di calore prima che arrivi Raul a porre fine. Betty si trascina barcollando: è tutto finito in un abbraccio infinito di Regina.
Due, tre, forse quattro secondi, poi più nulla.
ANSA: Aggredita da una tigre, domatrice salva grazie al sacrificio di scimmietta ammaestrata.
venerdì 16 marzo 2007
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I - Senza parole |
“Non avrà mica paura, vero?”
Faccio segno di no con la testa ma è una mezza bugia. Non ho paura, sono letteralmente terrorizzato.
“Non abbiamo mai ucciso nessuno.”
Il sorriso dell’assistente non mi tranquillizza per niente.
“Il dottore arriverà tra un attimo.”
Cerco di sorridere a mia volta ma faccio fatica a far funzionare i muscoli del viso che servono a distendere le labbra.
Guardo le mani veloci della ragazza che sistemano gli attrezzi sul ripiano e una morsa mi stringe lo stomaco. Cerco di distarmi e provo a immaginare la vita privata dell’assistente paffutella al di fuori dello studio dentistico. Si volta verso di me come per verificare che sia sempre lì e mi indirizza un altro grande sorriso. La osservo meglio: mi sembra che abbia sì e no vent’anni e mi chiedo se è una con abbastanza esperienza da mettermi le mani in bocca. Di certo nella sua di bocca infila cibo a dovere: ha un sedere che fa provincia.
Il dottore entra in quel momento. E’ più giovane di quanto credessi, ma mi dà l’impressione della persona seria. Il viso mi ricorda una tartaruga. Ha un paio di occhiali rotondi che rendono i suoi occhi piccolissimi. Si presenta, mi stringe la mano e chiede all’assistente se ha già preparato l’anestesia. Il tutto senza accennare neppure l’ombra di un sorriso. Sì, è uno serio.
“Dov’è che ha dolore esattamente?”
Non mi fa rispondere, mi ficca le mani in bocca e mi siringa la gengiva. Percepisco un lieve dolore nel momento della puntura, ma mi rilasso ripetendomi che d’ora in avanti non sentirò più niente.
“E’ questo dente”, rispondo indicandomi il premolare destro superiore. Lui nemmeno mi guarda, mi dà le spalle e armeggia tra i suoi attrezzi.
Quando si volta vedo che ha in mano uno strano bisturi.
“Adesso praticheremo una gengivectomia per facilitare l’estrazione.”
Gengivectomia? Estrazione? Io pensavo fosse una carie.
Guardo interrogativo il viso da tartaruga del dentista, ma da quel volto non trapela niente e l’espressione è sempre la stessa.
Mi volto verso la sederona a cercare conforto. Lei sorride ancora, ma la sua espressione è cambiata. Quel sorriso ha un non so che di sbagliato.
Prima che possa pensare di fare qualsiasi mossa, mi ritrovo le mani della cicciona sulle mie braccia. Mi coglie alla sprovvista e non capisco cosa voglia fare. Mi divincolo ma lei non molla e continuando a sorridere in quel modo sbagliato mi tiene fermo alla poltrona. Non riesco a ribellarmi, è come se non avessi più forze.
“Dottore, l’anestesia sta facendo effetto”
Ma non dovrebbe addormentarsi solo un lato della bocca?
Il dottore aziona il bisturi e l’assistente mi lascia le braccia ormai pesanti e inermi e mi allarga la bocca. Provo ad alzare un braccio, a muovere le gambe, a chiudere la bocca, ma solo i miei occhi sembrano rispondere ai comandi del cervello e si muovono da una parte all’altra dell’orbita cercando di capire cosa sta succedendo. Poi il bisturi è dentro la mia bocca e io sento un odore di pollo bruciato. La sederona raccoglie con l’aspiratore i pezzi di gengiva che mi cadono sulla lingua. Voglio urlare, scappare, ma sono completamente immobilizzato. Quando il bisturi cessa il suo lavoro, il dottore prende qualcos’altro dai suoi strumenti e solo quando si volta nuovamente verso di me vedo le tenaglie. Aspetto impotente che l’attrezzo mi strappi il dente, ma questo momento non arriva mai.
Accade qualcosa di peggiore. Le tenaglie mi afferrano la lingua e sento tirare con una forza tale che penso mi si staccherà tutta la testa. Il dottore tira come un dannato e la sederona si mette dietro di lui e lo aiuta . Mi chiedo perché non senta dolore, forse è l’anestesia. Non finisco di formulare questo pensiero che percepisco qualcosa.
Non è dolore, è un rumore. E’ come quando preparo gli straccetti di cavallo e sfilaccio il pezzo di carne aiutandomi con le mani.
Poi il dottore e la sua assistente finiscono per terra con un tonfo sordo, guardano entrambi le tenaglie che lui stringe fra le mani. Vedo la tartaruga che sorride per la prima volta e gli occhi mi finiscono sul loro trofeo grondante di sangue.
Provo a urlare, ma credo di aver perso la lingua.
Il resto è buio.
martedì 13 marzo 2007
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Per non saper né leggere né scrivere¹ - Non essere stanchi |
di Enzo Fileno Carabba
Quando ho cominciato a tenere corsi di scrittura non sapevo a cosa andavo incontro. Ho imparato molte cose. Di solito uno, senza rendersene conto, frequenta persone simili a lui. Per esempio persone che hanno in comune il fatto di aver preso il treno, qualche volta, o persone più o meno convinte che i libri siano una splendida cosa, o persone che non vengono picchiate spesso. Invece tenendo corsi in tante scuole diverse, in tanti ambienti diversi, ma molto diversi, ho incontrato ragazzi sapienti, ma anche ragazzi i cui contatti coi libri sono veramente minimi. Ho incontrato ragazzi che vanno in deltaplano ma anche ragazzi - non pochi - che non hanno mai preso il treno, oppure non sono mai stati a Firenze pur vivendo a pochi chilometri da Firenze.
Infatti non è vero che nella nostra era tutto è più vicino e più veloce. Ci sono barriere enormi. E non parlo di ragazzi che, in qualche sperduta catapecchia, vengono travolti da bombe democratiche, ma di ragazzi molto vicini a noi, in termini di chilometri.
Io spesso porto cassette con film che hanno come protagonista Dracula. Il ragionamento è questo: vedere come una storia che tutti conoscono viene affrontata nel libro e nei film. Ma una volta sono andato in una classe in cui nessuno conosceva la storia di Dracula, a parte la versione comica di Aldo Giovanni e Giacomo (peraltro pregevole) e una pubblicità in cui compare un vampiro. In compenso quando ho interrotto la cassetta ed è apparso il Tg2 in diversi si sono messi a urlare: "Tg2 Tg2!" come riconoscendo una divinità tribale. Lo so che sembro cattivo, solo che è andata così.
Ho sfiorato vite belle e terribili. Ho fatto lezione a ragazzi che, appena arrivati da paesi lontani, non so cosa capissero di quello che dicevo.
Non è detto che le scuole dove il livello culturale è più alto siano anche le scuole da cui escono i racconti migliori. Non sempre. Per scrivere bisogna scommettere, osare, lasciarsi andare, produrre scintille. Se giudichi con troppa intelligenza è la fine, quello che scrivi si ferma, smette di respirare, muore. Non è facile. Questo coraggio può essere liberato dall'esterno, ma cova nel cuore dei singoli.
Quando andavo a scuola come alunno, a parte che mi sembrava non sarebbe finita mai, ero colpito dal fatto che molte persone erano sempre stanche e ritenevano di ricevere, dalla vita, molto meno di quanto meritavano. Questo valeva sia per i professori che per gli alunni, dato che come si sa si influenzano a vicenda, a volte in modo miracoloso, altre volte in modo devastante. Sarà la scuola, pensavo. Oggi so che non è così. Dopo, molti continuano a essere stanchi e scontenti: per il lavoro, o per la mancanza di lavoro. O per questo, o per quell'altro. E così via per tutta l'esistenza. È una costante universale, e coloro che nonostante tutto, caparbiamente, si sottraggono a questo modo di percepire la vita sono - ai miei occhi - dei piccoli eroi.
Io per parte mia, nonostante sia passato molto tempo, sono ancora così sollevato che la scuola sia finita che il mondo mi appare in una luce meravigliosa.
L'importante è non essere stanchi.
¹Per non saper né leggere né scrivere è una frase che diceva sempre mia nonna, a cui dedico questo testo.
venerdì 9 marzo 2007
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VIII - Eurostar 9450 - Un anno dopo |
“E’ occupato?”
Deja-vu.
Cazzo sono, lo sportello delle informazioni?
“No, prego”, rispose Cristiano spostando lo zaino sulle sue cosce. L’uomo lo scavalcò impacciato sedendosi di schianto. Era un omone grosso e sudaticcio, che si passava di continuo un fazzolettino di carta tutto sbertucciato sulla fronte bagnata.
Cristiano smise di guardarlo e tornò a leggere il suo libro, ignorando quello che accadeva intorno a lui.
Ma come succedeva al solito quando era in treno, non riuscì a concentrarsi per molto e rialzò lo sguardo dando un’occhiata alla ragazza che gli stava di fronte.
Cazzo, che carina!
Lei sentendosi fissata alzò lo sguardo a sua volta. Cristiano le sorrise. Lei ricambiò vagamente con un sorriso imbarazzato, poi non sapendo bene cosa fare o guardare, iniziò a rovistare nella sua borsa alla ricerca di un oggetto non ben identificato.
Cristiano ridacchiò fra sé e sé. Ormai ci era abituato. All’inizio si era sentito offeso e ci rimaneva male, ma aveva imparato ad andare oltre a quelli sguardi misti di compassione e paura. Compassione e paura per la sedia a rotelle su cui sedeva.
Gli tornò alla mente la dottoressa Franchi e per un attimo si ritrovò nell’ospedale dove era rimasto circa un mese. La voce vellutata della dottoressa gli aveva parlato con freddezza:
“La paralisi è permanente. Potremmo tentare un’altra operazione e sentire anche pareri di altri specialisti, al giorno d’oggi la medicina…”
“Dottoressa, siamo sinceri, mi guardi negli occhi e mi dica se esiste la minima possibilità che io torni a camminare.”
La sua voce era suonata così distaccata e lui stesso si era stupito. Gli occhi azzurri e stanchi della dottoressa Franchi lo avevano fissato per qualche secondo, poi la voce morbida aveva parlato nuovamente:
“Lei non potrà più camminare.”
Gli aveva spiegato cosa era successo alla sua spina dorsale e alle sue vertebre lombari, aveva usato mille termini medici cercando di illustrargli la nuova vita che avrebbe dovuto condurre. Cristiano aveva ascoltato sì e no. Quando la dottoressa aveva terminato, lui le aveva sorriso, l’aveva ringraziata e le aveva chiesto di lasciarlo solo.
“C’è sua madre qui fuori che vorrebbe stare un po’ con lei. E’ rimasta qui tutta la notte, sa?”
“Le dica che vada a riposare. Voglio stare solo adesso, davvero.”
La dottoressa aveva fatto un cenno di assenso con la testa e poi era uscita in silenzio. Quanti giorni aveva passato a urlare dentro di sé e maledire tutto e tutti? Quante settimane, quanti mesi erano passati prima che si stancasse di piangere e bestemmiare? Non lo ricordava, ma a un certo punto, non aveva più voluto stare solo. A un certo punto aveva voluto che sua madre stesse accanto a lui con i suoi Santiddio e le sue pellicce costosissime. E aveva iniziato a vivere la sua nuova vita a due ruote.
Il cellulare squillò.
“Mamma?”
“Tesoro, dove sei?”
A fare la maratona di New York.
“Sono appena ripartito da Firenze. Tra un’ora e mezzo arrivo.”
“Io sono già in stazione, tesoro. E quegli angeli di ragazzi sono tutti qua per aiutarci.”
Angeli? I tipi dell’assistenza handicappati?
“Ok, mamma, ci vediamo tra poco.”
“Santiddio, Cristiano, ma non potresti essere un po’ più espansivo e meno musone?”
Certo, appena scendo dal treno, mi alzo e mi metto a ballare.
E’ bello sapere che certe cose non cambiano mai.
“A fra poco, mamma.”
“Ok, tesoro, a dopo.”
In realtà qualcosa ogni tanto cambia: sua madre non ha mai capito quando era il momento di tagliare corto. Adesso sì. Adesso sa quando deve stare zitta.
“Scusi”, fece la ragazza carina all’omone sudaticcio accanto a lui, "Quando arriviamo a Roma, mi può dare una mano a tirare giù la valigia?”
C’è un bel vantaggio a viaggiare in treno se sei paralitico: non devi preoccuparti di prepararti per scendere né della valigia. Fanno tutto quelli dell’assistenza.
“Certo”, rispose l’omone e i due si sorrisero.
Cristiano si sentì escluso. Di nuovo si ritrovò a pensare come il suo handicap spaventasse le persone. Ma del resto i due parlavano di azioni che lui da solo non era più in grado di compiere.
Fu in quel momento che la ragazza che stava passando nel corridoio gli finì addosso per la brusca frenata del treno.
“Merda!”, esclamò, “mi scusi, io…”
Cristiano la aiutò a tirarsi e su la riconobbe:
“Erika!”
Lei si tirò indietro il ciuffo e lo fissò. Le erano cresciuti i capelli, ma era quella di sempre.
“Cristiano!”, esclamò lei visibilmente contenta di vederlo. Poi lo sguardo le cadde sulla sedia a rotelle e allora il sorriso le morì in faccia.
“Ma…”
Cristiano le fece un cenno come per dire di non parlare.
“Quando hai tempo per un caffé ti racconterò.”
“Ma, come…cioè, è una cosa…”
“E’ permanente”, disse Cristiano guardandola. Per un attimo quegli occhi azzurri gli ricordarono la dottoressa Franchi.
“Oddio, Cristiano, io…”
“Stai sempre a Milano?”
“Sì.”
“Allora, passa da me una sera e facciamo due chiacchiere, magari lunedì prossimo.”
“Sì, cioè non so, lunedì devo andare con Luca…”
Si fermò. Cristiano sorrise.
“Quando hai tempo, non ti preoccupare. Il mio numero ce l’hai. O hai buttato anche quello?”
“No, no…”, disse lei, “ho buttato via tante cose, ma non il numero…”
Si sorrisero. Cristiano sapeva che lei non sarebbe mai passata a trovarlo.
“Allora ci vediamo”, disse lui dopo qualche secondo di silenzio.
“Sì”, rispose lei, “buon viaggio”
Erika se ne andò traballando nel vagone accanto. Poi vide che la ragazza di fronte a lui lo guardava.
“E’ la tua ex?”
“Eh?”
“Dico, stavate insieme?”
“Sì”, rispose Cristiano.
“E’ carina.”
“Sì”
“Com’è successo?”
“Oh, lei si è innamorata di un altro.”
“No, dicevo la sedia a rotelle. Un incidente?”
Cristiano non seppe il motivo, ma gli occhi gli si riempirono di lacrime. Le ricacciò dentro con uno sforzo sovraumano.
“Sì, un incidente.”
“Mi dispiace”, disse lei.
E dopo un attimo:
“Io sono Monica.”
Cristiano le strinse la mano.
Lei gli sorrise di nuovo e per la seconda volta a Cristiano venne da piangere.
L’omone sudato si alzò e scavalcandoli andò in bagno.
"Cristiano", si presentò lui.
“Sì, ho sentito che ti chiamavi Cristiano, non ho potuto fare a meno di ascoltarti mentre parlavi con lei.”
Cristiano la osservò meglio e penso che era davvero bella.
“Pensi che passerà a trovarmi una di queste sere?”
Monica si strinse nelle spalle:
“Penso di sì”
“Onestamente.”
Lei ci pensò un attimo, poi rispose:
“No, non credo.”
Cristiano sorrise e fece di sì con la testa.
“Facciamo così”, disse Monica all’improvviso, “ io sto a Milano, che ne dici se vengo io a trovarti?”
Cristiano la guardò sbigottito.
Monica rise:
“Ti va?”
Cazzo se mi va.
“Mi va.”
Chi l’ha detto che sui treni non si incontra mai nessuno di interessante, e chi l’ha detto che non ti danno mai il posto che chiedi? E soprattutto, chi l’ha detto che tutta la gente prova compassione e paura se sei costretto su una sedia a rotelle?
Cristiano non è religioso, non va mai in chiesa e quando gli capita di andarci per i funerali bestemmia di fronte alla porta di ingresso. Ma ora crede fermamente che gli angeli esistono. E forse ne ha appena incontrato uno.
“MI VA”, ripeté un po’ più forte ridendo insieme a Monica.
venerdì 2 marzo 2007
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Indirizzi |
All’uscita dell’autostrada dopo l’autogrill, la tangenziale trafficata, una, due, tre alla quarta uscita, dopo il distributore a destra, la seconda casa sempre sulla destra, ci abitavi tu. Un paradiso perduto con il giardino e Fox che all’inizio mi abbaiava contro, tua sorella piccola che parlava sempre, anche da sola, i tuoi genitori che ora non sono più.
La strada che porta al lago, quando arrivi al bivio dove c’è quel ristorante che fa anche da pizzeria, giri a sinistra e continui dritto fino alla piazzetta, quella della chiesa, qui parcheggi dove trovi posto e a piedi ti infili in quella strada chiusa, quel palazzo infondo, all’ultimo piano, il bilocale che era il nostro nido. Solo io, solo tu, mobili avanzati tutti spaiati, il tuo ordine che cozzava con il mio disordine, le risate in piena notte che disturbavano i vicini.
Nella parte nuova della città, di fronte al tribunale, nuovo anch’esso, il palazzo in vetro, al penultimo piano il quadrilocale che ci sembrava enorme fino a che siamo diventati tre sempre rimanendo uno.
La strada in cima alla collina, al terzo tornante la clinica, quinto piano in fondo al corridoio, vicino ai bagni, le lenzuola bianche, la flebo appesa, viavai di infermiere, tu distesa ed io che ti tengo la mano, o viceversa, è un po’ buio, non ricordo.
La strada che porta al cimitero, anzi il cimitero stesso, settore D numero 251, per terra una lastra di marmo grande come il nostro letto, è l’ultimo letto ed ora stiamo sognando entrambi lo stesso sogno.