Una vita che sono due - I
3 marzo
Domenica mattina
Seduta in cucina, in una mano la tazza di caffè, nell’altra la sigaretta. La lettera è aperta sul tavolo. Il finale lo conosco a memoria:
“…Non sento più nessun dolore. Io, alla fine, ci sono riuscito a ribellarmi, definitivamente. M.”
Ancora mi chiedo come ho potuto non essermi accorta di quanto stava accadendo, non aver capito, non essere riuscita ad aiutarlo e il senso di impotenza provato in passato riemerge doloroso. Due anni in cerca di una risposta che forse non c’è.
Ripiego la lettera. La metto via. Sonno, tanto sonno. Il richiamo del letto è come il canto delle sirene.
Finisco l’ultimo sorso di caffè, infilo la tazza nell’acquaio, spengo la cicca sotto il getto dell’acqua. Mi dirigo a passo deciso e testa bassa verso il bagno “porcaputtana! basta! Devo uscirne… o non ci levo più le gambe”
Di fronte alla porta della camera mi fermo come davanti ad uno Stop. Guardo il letto, il mio rifugio “dai, non farti fregare. Un piccolo sforzo…” passo oltre… “bene, ce l’ abbiamo fatta”
Apro la doccia, mi spoglio, osservo la mia immagine riflessa nello specchio. Provo un senso di disagio… di non appartenenza: come aver di fronte una sconosciuta. Lo sguardo percorre i contorni del viso, dalla fronte fino al mento, poi risale e arriva all’appuntamento con gli occhi, li scruta cercandone il fondo. “Chi sei?”
Sullo specchio appare una scritta fosforescente a caratteri cubitali: “DIMMELO TU”
Un’esplosione al centro dello stomaco “ecco! ci siamo: la pazzia al galoppo!” Vacillo, ma solo per un istante. Mi stupisco nel sentire la mia voce, balbettante, uscire dalle labbra: “Non … non lo so più, mi sono persa di vista. Il tempo mi è passato addosso… ed io non me ne sono nemmeno accorta e ora…” ho parlato e non so che diavolo ho detto
Di nuovo la scritta:
“Primo, il tempo non esiste e quindi non “passa”, siamo noi che ci passiamo in mezzo. Secondo, è arrivato il momento di ritrovarsi. Quindi vediamo di darsi una mossa! È domenica mattina, fuori c’è il sole e in piazza c’è un bel mercatino”
Ok! quando il gioco si fa duro… Mi lavo e mi vesto in fretta. Esco.
Mi incammino per le viuzze del centro piene di gente e di vita. In piazza Santo Spirito c’è il mercatino lo specchio aveva ragione
Eccolo lì con tutti i suoi colori, le voci, gli odori e la merce di ogni genere e provenienza
E’ sempre lo stesso, da anni e anni: stessi ambulanti, stesse bancarelle sistemate sempre negli stessi spazi prestabiliti, gli stessi oggetti… Forse un po’ noioso, di certo rassicurante.
Prima bancarella, quella dei fiori. Il profumo entra prepotente nelle narici, lo inspiro estasiata. Uno starnuto mi scuote dalla testa ai piedi, gli occhi mi bruciano. Allergia da polline. Mi allontano velocemente.
Davanti al banco dei prodotti etnici, mi fermo, rapita dalle tinte dei vestiti, le maglie i cappelli e le sciarpe di lana, fatte a mano. Intorno un intenso odore di pathciuli…
Riprendo a camminare, spulcio tra le robe in bella mostra. Il mercato brulica di gente che, come me, guarda tocca annusa cammina si incontra e si saluta; si ferma per due chiacchiere e poi riprende la passeggiata… senza fretta. Ogni cosa, intorno, sprigiona una lentezza innaturale, e mi viene in mente la scena di un film al rallentatore
Sul banco dell’abbigliamento usato mucchi di vestiti gettati uno sull’altro senza ritegno
Prendo in mano una gonna strana, lavorata ai ferri con lana grossa e soffice, molto particolare. La guardo bene e mi accorgo che è un poncho, probabilmente anni 70, ne avevo uno simile, fatto a mano da mia zia.
Di nuovo uno starnuto… allergia da ricordi. Da sotto una pila di giubbotti e sciarpe spunta la manica di una camicetta viola. Riesco a tirarla fuori, la controllo rigirandola tra le mani. E’ carina, chissà chi l’ ha indossata, chissà com’era quella donna, chissà se vive ancora; aveva gli occhi chiari oppure neri, era alta o piccolina, aveva figli, era felice, com’era la sua vita. Quasi quasi la prendo. Poi ci ripenso: ha un vistoso rammendo sulla spalla destra. Sto per ributtarla sul banco, quando…
Una voce maschile, dura rabbiosa e disperata mi grida qualcosa. E’ dietro le mie spalle. Mi volto di scatto, ho la prontezza di schivare il coltello che la mano dell’uomo sta puntando al mio viso ma non riesco ad evitare che la lama affondi nella spalla. Il sangue scorre sulla camicetta strappata
Mi metto a correre, lui mi insegue. Sento che non ce la farò mai. E’ la fine “Aiuto…qualcuno mi aiuti !”
“Che fa, la prende?” il venditore mi sta dicendo qualcosa, indicando la camicetta ma io non sento la sua voce e devo avere un’espressione da ebete. Il venditore insiste “Allora, che fa, la prende?” . Adesso sento benissimo “Oh, no, no grazie”. Un po’ imbarazzata me la filo di pedina.
Alla mia destra la bancarella delle saponette “a taglio” fatte artigianalmente, devo farne rifornimento; una al profumo di muschio bianco, un paio di quelle alla canapa, un vagone di quelle ai cinque oli che lasciano la pelle liscia come il culetto di un neonato. Poco più in là il signore delle candele, con il suo banchino stracolmo. E’ molto anziano, ha la barba bianca e lunga, saranno almeno vent’anni che lo vedo al mercato. Ha un negozietto dietro l’angolo dove crea e vende le sue candele di ogni forma e colore. Un vero artista, uno degli ultimi artigiani, purtroppo destinato a sparire, come tutti gli altri che fino a pochi anni fa caratterizzavano il quartiere, cedendo il posto a improbabili negozi. Ad esempio quelli di abbigliamento arredati in modo essenziale, talmente essenziale che non c’è nulla, tranne due commessi dal viso bianco e magro che ti guardano perplessi e capisci che vendono abbigliamento soltanto perché in vetrina c’è una maglietta strappata, appoggiata sul pavimento, con il cartellino del prezzo. Oppure i bar di tendenza dove trovi di tutto: dalla sauna al massaggio alle gallette biologiche, i frullati di verdure, gli aperitivi … ma se ci entri e chiedi un caffè ti guardano come se tu fossi un marziano. Guardo il signore delle candele e provo un senso di tenerezza, non soltanto per lui ma anche per le cose che vanno e che non tornano più
Mi sfilo il trench, inizia a far caldo. Finalmente un po’ di sole, lo adoro… soprattutto quello di primavera, carezzevole e tiepido: scalda ma non brucia, abbraccia ma non opprime…
2 commenti:
Molto bella davvero questa descrizione della rinascita...
il motivo di partenza può essere differente di volta in volta ma credo che tu abbia centrato molto bene la descrizione di una sensazione, l'emozione forte che viene vissuta in quell'attimo di passaggio, di transizione: quando si decide di restare impigliati nel proprio dolore o piuttosto di rinascere...
sia pure attraverso la passeggiata in un mercatino e quel sole sulla pelle che restituisce il senso del rigenerarsi delle cellule, della nostra pelle, del nostro tempo.
Chiunque tu sia benvenut* e brav*
ciao
ciao Enza,
Ti ringrazio per il Tuo commento, mi fa piacere che qualcuno si riconosca in ciò che scrivo. I miei racconti parlano soltanto di cose e vite semplici, di tutti i giorni. Ma a volte è proprio nelle cose semplici che alloggiano le grandi emozioni. Basterebbe soffermarsi un momento e guardarsi intorno, ascoltare il proprio respiro, guardarsi allo specchio con occhi nuovi. Ogni giorno perdiamo e guadagnamo qualcosa in più. Perdiamo un giorno di vita in cambio di un giorno in più di esperienza. E la sera quando ci rifugiamo nel letto abbiamo nuovo materiale per costruire un nuovo sogno. Ci sono periodi nei quali ti senti smarrita come una vecchia barchetta alla deriva; le notti sono sature di incubi ma niente in confronto allo svegliarsi e rendersi conto che la realtà è anche peggiore. Momenti in cui ti chiudi,anzi... chiudi fuori il mondo. Poi un bel giorno, non sai perchè non sai per come, il cuore fa ancora male ma non hai più intenzione di ascoltarlo; ti senti pronta per ricominciare a ballare - da sola o in compagnia, non ha importanza - come un serpente che cambia pelle lasci dietro di te i vecchi panni: la metamorfosi è avvenuta.
Gianna. di notte
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