Anche quest‘anno il Natale è riuscito a prendermi rincorrendomi per i centri commerciali e fra le luminarie del centro. Centri e centro! Coincidenza?
Anche quest’anno tutti a benedirsi : “Se non ci vediamo più ti faccio gli auguri, e alla tua famiglia”, poi ci si continua a vedere e ad ogni volta “Se non ci vediamo…”.
I bimbi invece parlano dei regali che sicuramente Babbo Natale gli porta, per non sbagliarsi scrivono l’elenco di questi in ordine di importanza, forniscono una copia a mamma, una a papà, nonni, zii e chiunque possa avere a che fare con loro.
Me ne è capitato uno con indicati anche i prezzi, come per le liste nozze.
Infine, come ogni anno, negli ultimissimi giorni mi sono mosso anch’io per quei regali che è bello fare, che è giusto fare, quasi necessario.
Qualcosa di carino, utile e ad una cifra ragionevole: facile vero?
Fra questi anche l’autoregalo, e come spesso capita: un libro. Quale?
Quelli da leggere che già possiedi, non valgono.
Quelli già letti e che sai essere belli, ancor meno.
Passi il tuo tempo in librerie zeppe di gente e libri, ma l’ispirazione non arriva e allora ascolti un vecchio consiglio che da mesi rimane pendente: Mi raccomando: Tutti vestiti bene: David Sedaris: Oscar Mondatori.
La vigilia è dedicata ad albero e presepe: finché non è mezzanotte si è sempre in tempo.
E’ Natale.
Fino a mezzogiorno si aiuta in cucina, poi a tavola con una quantità elevata di cibo, vino e parenti.
Il pomeriggio, invece, è dedicato alla lettura, seguo il consiglio di chi scrive, ti insegna a scrivere e ti dice che leggere: non si può chiedere di meglio.
Il libro ha un giusto numero di pagine e lo tieni facile in mano, tanto che con l’altra riesci a rispondere ai vari sms di auguri che arrivano e che di anno in anno, giocando al rialzo, si fanno sempre più lunghi e articolati.
Passa il Natale, e passa anche questo libro… questo libro... deludente.
Autobiografico, fatto di aneddoti che seguono una certa logica fino solo a metà volume, poi fanno quello che vogliono. Sono il primo a dire che la trama non è importante, anzi, ma se la togli, bisogna metterci dell’altro, un’invenzione, lo stile tuo, qualcosa per bilanciare?
L’io narrante è un ragazzo gay nato in una famiglia strana nel mezzo di un paese strano: l’America. Se gli americani in sé non li si capisce bene, anche gli autori loro connazionali non è facile prendergli le misure, come per gli orientali, giapponesi in testa. Eppure per un verso o per l’altro ci affascinano, e molto. Io degli americani, gli autori intendo, mi piace come riescono spesso a descrivere misere vite di povertà e stenti con la leggerezza e il disilluso ottimismo che ad un europeo sono preclusi. Gli esempi sono tanti e famosi.
Queste storie deprimenti, basta un nulla e riescono a far sorridere, ma soprattutto insegnano a scrollare le spalle invece di piegarle. Sono storie che finiscono bene, o male, o così così, ma non è questo che importa, non ho ancora individuato cosa esattamene è importante, però capisco che deve esserci un qualcosa che lo sia.
Lo stesso sconclusionato Sedaris (emule?) ironico quanto non basta, architetta gli aneddoti della sua vita suggerendoti di cercare il perché le cose accadono. Se hai capito questo dai grandi scrittori americani, perché non dovresti arrivarci leggendo anche di questo ragazzo gay che, se fosse stato etero, la storia non ci avrebbe guadagnato né perso?
Il meccanismo è lo stesso, mezzo accennato, uno sforzo e ce la fai.
Sarà, ma per gli altri questo gioco mi veniva quasi spontaneo, mentre per Sedaris… non ci ho voglia!
Buon Natale a tutti.
giovedì 27 dicembre 2007
[+/-] |
Consigli per il Natale: Mi raccomando: Tutti vestiti bene. |
domenica 2 dicembre 2007
[+/-] |
I Ciechi - VIII |
[Autrice: Sonia]
Il Libro era la sola cosa razionale e tangibile in quel contesto.
Spesso mi si confondevano le idee, ultimamente mi succedeva un po’ troppo spesso. E poi, in questo mondo parallelo che era la città dei sogni non raggiunti, ormai il rumore della vita mi aveva costretto in comportamenti non edificanti… tutte quelle stronzate con quei disperati delinquenti come me che facevano assurdità parlando a vanvera. E le lenti bianche... Ad un certo punto a forza di tenerle mi dimenticavo, mi pizzicavano gli occhi, vedevo opacizzato. Mi spaventavo come un bambino.
Certo, quasi quasi era meglio vedere col filtro del vetro satinato piuttosto che guardare a fuoco questo mondo corrosivo, appiccicoso, deforme. Qui, tra l’alcool e il resto, un resto eccessivo, la realtà e il sogno si confondevano, gli incubi si affacciavano diventando dialoganti, trovando la propria strada, vestivano i panni dei miei fantasmi del passato e i travestimenti del presente. Che banda di disperati deliranti… povera Denise, anche lei come se n’era andata, in tutto quel trucidume, incapace di reagire, lei che amava tanto l’arte, la letteratura, il cinema e la musica…
Camminavo a fatica con la mente a pallini, le vista a macchie, il rimbombo del vicolo e la puzza del cassonetto addosso. Tastavo continuamente la tasca, era lì con me, quel libro. Mi aveva seguito sempre, mi aveva amato poco ma insegnato tanto. O forse nulla, dato il mio stato. Si era scolorito ed ingiallito come la mia vita. Il titolo, enigmatico… non alludeva a quello che la logica faceva supporre. Parlava di natura, minerali e rocce, fauna e flora. I Ciechi erano dei particolari tipi di cristalli traslucidi simili a lenti opaline attraverso le quali si poteva vedere il mondo come in un sogno. Conteneva affascinanti tavole a colori che avevano fatto brillare i miei occhi di bambino. Ora erano stinte, le rocce frantumate, i petali graffiati, le scritte a metà.
E quella dedica, la grafia tremolante e obliqua della Nonna Amalia… cristallo, cuore che arde…sfera di luce…che illusione! Avrebbe voluto un nipote tutto perbenino e buono, soprattutto un bravo cristiano con le mani giunte, gli occhi al cielo e la riga da una parte. La fede, La luce, il cuore che arde….. Si era ritrovata con un somaro agitato e ribelle con le ginocchia sbucciate e i capelli a serpente che, ad una età indegna e non avendo combinato niente di sensato, beveva come una spugna e si faceva di tutto, si infilava le lenti a contatto accompagnandosi ad un consesso di altri disgraziati cerebrolesi tali a lui per poi farsi sgridare come un idiota dal Trucido in persona, manco fosse un istitutore... L’unica cosa era sperare che la Nonna Amalia non potesse mai vedermi dall’Aldilà e quindi niente Aldilà, per favore.. Altro che tavole a colori! Qui era tutto in bianco e nero, anzi di quel grigino topo-morto che fa ancora più schifo. Povera Denise..
Nella libreria I Ciechi stava al contrario per scaramanzia, per sapere sempre dov’era e nell’illusione che l’averlo messo sotto-sopra potesse raddrizzare la mia vita. A volte, quando avevo superato il limite, perso l’illusione di ritrovare me stesso e di capire com’era andata con Denise e i suoi occhi perduti per sempre, vedevo lassù in alto la Nonna Amalia che mi sorrideva con in mano il cristallo della salvezza, un cuore che ardeva in petto tutto trafitto di frecce come quello dei santini, e una luce ipnotizzante tutto intorno.
Ma durava poco, la Nonna era incazzata nera e mi mandava a quel paese in diretta, tutto ciò reggendo in mano fieramente il cuore, il cristallo e la fiamma.
E allora tutta quella storia, sogno e realtà, inseguimenti, specchi, messe nere e occhi bianchi mi sembravano un gioco banale, una fuga dalla vita di tutti i giorni, senza Denise e senza un senso.
In quel preciso momento di sanità mentale temporanea, tanto valeva ritornare a casa, riporre I Ciechi al loro posto, magari per il verso giusto non si sa mai nella vita….magari dopo essersi fatti un bel bicchierino che schiarisce per bene le idee……magari.
[+/-] |
I Ciechi - VII |
L’istinto mi fece portare la mano ai genitali per assicurarmi che ci fossero ancora. Mai mi ero soppesato i coglioni con tanto piacere!
Questa gente era fatta peggio di me e il loro fottuto specchio era solo un'olografia della solita foto di Denise. I capelli, i vestiti e la posizione erano quelli della foto. Mi mossi alzando un braccio. L’immagine riflessa rimase immobile, poi con uno scarto di qualche secondo seguì il mio movimento.
Mi voltai verso i presenti con espressione trionfante, sicuro che avrebbero accolto la sconfitta con dignità. Ma eravamo rimasti in pochi.
I soliti due pesci lessi dall’aria finto angelica, la vecchia presa dal suo ruolo e l’uomo "non male" dalle caviglie fini e dal pastrano fuori moda. Avrei voluto assomigliargli un po’, almeno nell’aspetto, forse Denise si è lasciata affascinare da questo stronzo con le lenti bianche. Invece di stare con me e vivere felici; io sempre sbronzo e lei sempre cotta e magari anche incinta. Sarebbe stato bello invitare questo stronzo a cena una sera e vomitare l’anima sul tavolo appena arrivava. Denise avrebbe potutto farsi un bel trip davanti a lui e magari dargliela per una dose. La gente così cerca l’emozione; allarga sempre il portafogli davanti a quelli come noi.
Mi incominciò a montare la rabbia. Quella cieca appunto, ma per davvero. Quella che non aveva bisogno di espedienti pseudo paranormali per trovarsi ad uccidere qualcuno. Si era cavata gli occhi la mia donna e questi erano ancora in libertà a giocare con gli specchi. Non sapevo ancora se erano stati loro o lei stessa a immaginare e mettere in pratica quello sconcio che a me era toccato trovare riverso sul pavimento della camera.
Con un largo sorriso mi rivolsi alla vecchia che sembrava davvero affranta dal mio comportamento. Mi guardava come si guarda un bambino che non vuole giocare al gioco che gli adulti gli vogliono imporre. "Oh, vecchia non lo vedi che so’ io? Ti ricordi i’ Riccardo? Sono sbronzo ma non son mica cotto come la Denise sai!"
Si erano tutti coalizzati contro di me e non mi riusciva di farmi capire o di uscire da questa situazione. Uno degli angeli deficienti mi porse un bicchiere ed io lo presi come faccio sempre e lo buttai giù. Persi coscienza e mi risvegliai con il solito odore pungente della spazzatura del bidone dei rifiuti dietro al bar. "Ecco adesso mi ritrovo" pensai soddisfatto e feci per alzarmi. Con la mano a tastoni trovai il bordo del cassonetto e sollevai la testa fuori. Era buio pesto. Tanto buio da sembrare ancora più buio della notte, un buio compatto. Mi spaventai e cominciai ad urlare.
Dall’ingresso posteriore del bar arrivò il trucido in persona a tirarmi fuori. "Sentimi bene Riccardino, se non la finisci chiamo il centodiciotto e l’unità psichiatrica mobile! Non si può continuare così hai capito?! E togliti quelle cazzo di lenti a contatto bianche che ti metti, quando sei completamente sbronzo te le dimentichi e ti spaventi! Tu mi sembri il Marilin Manson davvero!"
"Ma che l’hai visti te? Quello spilungo con i’ cappello e i’ pastrano? C’era pure la vecchia coi vestitini a fronzoli ..." ma il Truce è già rientrato nel bar a lavorare. Quando fa così so che per qualche giorno non mi devo far vedere perché gli metto il nervoso. Così, dopo essere rimasto qualche tempo con la schiena comodamente poggiata al muro, mi allontano e vado verso casa. Poi mi accorgo di avere qualcosa nelle tasche. È il solito libro vecchio e sdrucito.
domenica 18 novembre 2007
[+/-] |
I Ciechi - VI |
[Autore: massi]
“Di nuovo qui.”
Di nuovo? Non ho mai visto questo posto.
Mi guardai intorno. Avevo seguito i due ragazzi nella sfera senza stare a pensarci troppo. Ma ora che ero dentro, avevo la sensazione di aver fatto qualcosa di poco saggio. Mi trovavo in un enorme salone con il soffitto altissimo. Colonne di marmo sorreggevano la volta dipinta. Alzai la testa per osservare l’affresco: un cristallo luminoso fra lingue di fuoco.
“Finalmente, di nuovo qui”, ripeté la donna che mi stava di fronte. Era sulla sessantina e capii subito che si trattava di lei. Gli uomini che avevo inseguito le stavano di fianco, uno a destra e uno a sinistra. Dietro c’erano decine di persone che se ne stavano in silenzio a fissarmi.
“LUI ti stava aspettando. E‘ giunto il momento di ritrovare la luce”, disse Fabienne, “hai portato il libro?”
Mi toccai la tasca dei jeans per verificarne la presenza come in trance. Poi una porta si aprì e lui entrò. Era come lo avevo visto nel sogno. Si avvicinò a me con passo sicuro come se ci vedesse perfettamente. Si tolse gli occhiali rivelando la sua cecità e sorridendo mi disse:
“Era ora che tornassi da noi.”
Finalmente trovai la forza per parlare:
“Chi siete? Cosa volete da me?”
Fabienne si scambiò uno sguardo fugace con i due ragazzi. L’uomo si avvicinò ancora di più a me e posò la sua mano sulla mia spalla. Desiderai toglierla, ma in qualche modo mi trasferiva calma e serenità.
“Non ti ricordi di noi?”
Scossi la testa. La sua voce aveva un suono ipnotico, come il tocco della sua mano.
Fabienne si avvicinò a sua volta, mi prese per mano e mi disse:
“Davvero non ricordi?”
La voce di Fabienne ruppe l’incantesimo del cieco, mi scossi e mi scansai da entrambi ponendo una distanza tra me e loro.
“Ricordare cosa? Io so solo che mi state perseguitando. Nei sogni, di notte, di giorno. Non riesco più a dormire, non distinguo più il sonno dalla veglia. Cosa mi avete fatto?”
Fabienne tentò di avvicinarsi, ma l’uomo la fermò con la mano e disse:
“Ricordi quando ci siamo incontrati per la prima volta?”
Tentai una risposta a caso:
“All’uscita del bar del Truce.”
L’uomo parve sorpreso:
“No, al bar del porticciolo.”
“Non so di cosa sta parlando, non conosco nessun bar del porticciolo!”
“Ti sbagli”, continuò l’uomo, “avevi fissato con Fabienne. Hai parlato con lei. E quando lei se n’è andata, io ti ho rivolto la parola. Ricordi?”
Rimasi in silenzio. Ripensai al sogno con Denise e azzardai di nuovo una risposta:
“Denise è andata in quel bar. Non io. Lei ha parlato con Fabienne per dirvi che mollava tutto, che non voleva più saperne di voi…”
Notai che Fabienne mi fissava con una strana espressione in viso. L’uomo si infilò nuovamente gli occhiali scuri e disse:
“Non perdiamo altro tempo. Procediamo!”
I due ragazzi mi si avvicinarono e mi presero per le braccia.
“Lasciatemi…lasciatemi…”, urlai con quanto fiato avevo in corpo.
Poi guardai Fabienne e le vomitai addosso tutte le accuse che mi vennero in mente:
“Sei stata tu! E’ tutta colpa tua.”
E con sguardo carico di disprezzo che lui non poteva vedere dissi all’uomo:
“Voi avete ucciso Denise, voi avete ucciso mio figlio.”
Sentii le lacrime che facevano capolino.
“Tesoro”, rispose Fabienne venendomi accanto, “del bambino abbiamo parlato più volte. O lui o te…”
“Che diavolo c’entro io. Avete assassinato Denise!”
Fabienne mi prese per un braccio con forza e mi portò davanti a uno specchio.
Nel mio riflesso vidi i lunghi capelli neri e ricci che mi ricadevano sugli occhi. Poi sentii la voce di Fabienne:
“Tesoro, tu sei viva.”
Fece una pausa e aggiunse:
“Sei TU Denise.”
martedì 30 ottobre 2007
[+/-] |
I Ciechi - V |
[Autrice: Alice]
Il Truce mi salutò col solito cenno del capo da oltre il bancone.
Poche le persone nel locale.
Avevo fatto la strada a piedi, questa volta.
Durante il percorso non riuscivo a smettere di guardarmi intorno; scrutare ogni individuo; tentare di cogliere ogni movimento estraneo alla vecchia strada che separava la nostra casa dal bar.
Niente di diverso.
Il sole si intravedeva a tratti tra le nuvole fitte; dovevano essere le quattro del pomeriggio o poco più.
Ero confuso.
Mi resi conto che i miei movimenti si susseguivano solo per inerzia.
Presi il bicchiere già pronto per me sul bancone e mi appoggiai di schiena e con tutti e due i gomiti.
Ero indeciso se ripetere i gesti fino a ricostruire l’ultima immagine del bar che mi tornava alla mente, e allo stesso tempo incerto se ritenerla sogno o realtà.
Giravo la testa in ogni direzione da cui provenisse un minimo rumore, per poi tornare a fissare la porta dell’ingresso.
Raccapricciante quanto tutto mi sembrava normale: come se il tempo fosse tornato ad un anno prima. Aspettavo che Denise entrasse da un momento all’altro nel bar, i capelli sciolti a incorniciarle il visto e la sua solita allegria contagiante, il consueto bacio di saluto al Truce con un balzo sul bancone e poi di corsa da me, a riempirmi la testa con il racconto di tutta la sua giornata.
Mi resi conto di aver spostato lo sguardo sulla foto appesa alla parete, questa volta non riuscivo a vederla molto nitida. Non erano le lacrime che mi impedivano di mettere bene a fuoco: mi ero ripromesso di non piangere più, dovevo prima riuscire a capire. I miei occhi continuavano ad essere coperti da quella finissima patina che mi faceva guardare tutto con estraneità.
Agguantai il bicchiere e lo scolai d’un fiato, ne presi un altro e poi ancora un altro. Me li trovavo accanto al gomito senza nemmeno chiederli, li portavo alla bocca e ingurgitavo il loro contenuto con movimenti tanto scattosi quanto incontrollati.
All’improvviso, azzurro.
Mi ridestai come da un lungo letargo fatto di pensieri accavallati.
Fuori dal locale, sulla strada un ragazzo con una camicia familiare aveva appena attraversato la strada.
Precipitandomi d’impulso verso l’uscita, cominciai a correre dietro al mio obiettivo, ormai diventato un piccolo punto di cielo in fondo alla via.
Correvo talmente concitato da non rendermi conto dello sforzo enorme che stavano facendo le mie gambe.
Saltavo marciapiedi, scansavo passanti e automobili, dritto verso la meta.
Tutto intorno a me sembrava rallentato, pensavo a Denise ormai come un’ossessione: lei che mi fissava come in quella maledetta foto; mi chiamava, continuava ad essere la protagonista dei miei sogni angosciosi, cercava forse di trascinarmi con lei verso la luce?
Mi fermai. I punti azzurri erano diventati due e mi sembravano sempre più lontani ma immobili. Dietro di loro un monumento sontuoso, enorme, a forma di sfera. Quando il sole fece capolino da una nuvola illuminandolo notai che era completamente di vetro ed emanava un bagliore fortissimo.
Eppure non mi ero mai accorto della sua presenza in questa parte della città.
Le due figure di uomini si fermarono davanti a quell’apparizione luminosa, si voltarono verso di me ed entrambi, con un minimo movimento delle braccia fecero segno che li seguissi.
Mi incamminai incerto, tra turbamento, confusione, paura ed un’eccitazione quasi isterica, sentendomi del tutto inerme.
Tolsi il libro ingiallito dalla tasca del pantalone, lo fissai tenendolo chiuso.
Nella testa mi tornò a mente la frase pronunciata dall’uomo con gli occhi bianchi e scritta nel libro, incomprensibile, ma incisa dentro di me come una poesia imparata a memoria.
domenica 14 ottobre 2007
[+/-] |
I Ciechi - IV |
[Autrice: ChiaraG]
Scivolare nel dolore era la prima cosa che avevo fatto. Ma non erano solo i ricordi a perseguitarmi. Continuavano ad apparirmi delle scene, delle situazioni, in cui Denise aveva a che fare con delle persone che non riuscivo a vedere in faccia… i miei occhi, quando tentavano di metterle a fuoco, rimanevano quasi scottati. Ma allo stesso tempo, dei loro volti… riuscivo ad avere una consapevolezza incredibile. Come se un senso diverso dalla vista me li facesse vedere. Come se potessi conoscerli attraverso il tocco della mano, accarezzando zigomi, naso e mento: soffermandomi sulle guance imberbi, quasi fossero appartenute a un ragazzo, ma trovandomi poi ad inciampare lungo rughe nette, che attraversavano una pelle morbida, liscia, molle come quella di un vecchio. Volti diversi, ma uguali nella loro diversità.
Denise invece la vedevo benissimo, spesso mi guardava con quel suo modo che non ho mai scordato, tanto che mi ero convinto che stesse cercando di comunicare con me, che mi stesse chiedendo di far qualcosa. Sarebbe stato troppo facile credere di essere diventato pazzo. Quasi l’ho sperato. Ma queste visioni che si materializzavano all’improvviso, questi strani sogni che continuo a fare, questi personaggi che non vedo eppure vedo… tutto è troppo strano eppure tutto sembra come retto da un unico filo, bianco, di seta.
Quando i medici mi dissero che Denise era incinta, quasi non mi stupii. Non so spiegare il perché, ma non mi meravigliai affatto, come se mi fosse stata rivelata la più banale delle verità. La sera stessa feci il primo sogno in cui lei ne parlava con Fabienne, parlava del bambino… in realtà credo che ne stesse parlando a me. Subito dopo sognai il bambino: mi chiamava, come se volesse giocare con me… ma quando mi avvicinai per prenderlo… vidi che aveva gli occhi bianchi. Come due grosse palle d’alabastro smaltato. Tra l’altro è strano, ma in questi giorni quasi non riesco a vedere il verde dei miei occhi, quando mi specchio. Insomma, quando i medici mi dissero che Denise era incinta, chiesi loro di vedere il bambino. Mi risposero che era meglio di no. Mi chiesero se ero io, il padre. Chi può mai esserne sicuro?, risposi, con una battuta sarcastica che certo non si addiceva al momento.
Quando Denise me ne ha parlato, nei vari sogni, ho avuto la netta sensazione che lei ne era sicura. Era sicura che ero io, il padre. Voglio ancora illudermi che non avesse fatto niente di più, con quei maledetti ciechi… ma qualcosa mi dice che quello non era mio figlio. Non solo per gli occhi bianchi (sono certo che se i dottori me lo avessero fatto vedere, la realtà avrebbe confermato il mio sogno); qualcosa mi fa credere che quel bambino l’abbia uccisa dall’interno… nei sogni in cui Denise diceva a Fabienne di volerlo tenere, lei le rispondeva di no, che non era possibile. Ma ora lo so, era solo un modo in più per metterle confusione in testa, per indebolirla, per privarla delle energie… per toglierle la gioia di vivere. E assicurarsi che, con una tale imposizione, Denise non avrebbe abortito. Se fosse stata libera di scegliere… beh, non so se l’avrebbe tenuto. Ne avevamo parlato pochi mesi prima: entrambi volevamo aspettare ancora un po’. Lei era molto impaurita dall’idea di una maternità. Ma le parole di Fabienne erano servite a ottenere quello che sembravano voler impedire: il bambino ero cresciuto nella pancia di Denise, e il male si era sviluppato in ogni meandro, in ogni centimetro cubo del suo corpo.
Di chi era il figlio, quello? Cos’era successo davvero?
Questo libro forse potrà dirmi qualcosa di più… devo trovare un senso, devo capire dove si annoda questo filo… questi ciechi, queste persone dagli occhi bianchi che vedo ovunque, che non mi lasciano solo di notte e anche di giorno trovano il modo di farsi vivi, cos’hanno davvero da dirmi?
Ma prima di tutto voglio andare al bar del Truce. C’è qualcosa che mi rimanda continuamente lì, nei miei sogni e nelle mie allucinazioni. Non riesco più a capire se davvero ci sono tornato, da quando Denise è stata uccisa. Mi sembra di non aver fatto altro che andare e uscire da quel posto, in questi giorni, ma in realtà non so se sia vero… non so se ero io in carne ed ossa, se era solo la mia mente o se era Denise che ha creato tutta questa recita per me… come non riesco quasi a capire se sono sveglio, adesso, o se sto ancora dormendo… se i miei occhi vedono le cose con chiarezza e mi dicono la verità, o se invece mi stanno ingannando e mi mostrano il mondo dall’interno di un concavo schermo bianco.
giovedì 20 settembre 2007
[+/-] |
I Ciechi - III |
[Autrice: Di Notte]
Fabienne mi aveva buttato giù dal letto alle sette per dirmi che doveva vedermi, in tutti i modi entro oggi. Fissammo per le sei, al bar del porticciolo. Ero in anticipo di qualche minuto.
Lui era seduto su una delle poltroncine di vimini sistemate intorno ai tavolini all’esterno del bar; l’estate era appena iniziata. Aveva un cappello cencioso, con una grande tesa. Immaginai che avesse un bel fisico, che fosse un bell’uomo. Dico immaginai perché aveva un trench lungo fin sotto il ginocchio che, anche se di cotone, trovai un po’ esagerato, vista la stagione. Notai che le mani, belle e affusolate, erano leggermente abbronzate; teneva le gambe accavallate e potei scorgere che anche le caviglie, che si intravedevano sotto il pantalone bianco, erano state baciate dal sole. Stava immobile con il viso rivolto verso il mare, oltre l’orizzonte. Gli occhiali scuri riflettevano le vele spiegate delle barche che navigavano lente e leggere di fronte al porto. Gli passai accanto, mi disse “Salve”. Risposi “Ci conosciamo?”. “Può darsi...” mi disse “il suo profumo non mi è nuovo”.
Io non uso profumo, risposi. “Appunto” disse lui “per questo l’ ho riconosciuta subito”. Mi parlò senza mai voltarsi. Non mi guardava ma mi sentii ugualmente osservata. Arrivò Fabienne, ci sedemmo al tavolo accanto, ordinai una spremuta e lei il solito americano, probabilmente il quinto o sesto del giorno.
“Cosa c’è di così urgente?”
“Ti stai allontanando, ho avuto ordine di parlarti per capire il perché…”
“L’ordine di parlarmi? Senti Fabienne, io voglio lasciare.”
“Non puoi andartene adesso, ti ricordo che hai giurato.”
“Lo so, ma sono confusa, aiutami per favore, non me la sento più di andare avanti. Non so più quale vita è la mia veramente. Il sogno e la veglia si incrociano di continuo, e io non so più chi sono… Doveva essere quasi un gioco e invece mi sta consumando.”
Il cameriere arrivò con le bibite, l’occhio gli cadde nella mia scollatura che, da una prima scarsa, in un mese era già una terza abbondante. Imbarazzante, non ci ero abituata: il “davanzale” non è mai stato il mio pezzo forte, gli uomini hanno sempre preferito il mio lato B. Mi aggiustai la camicetta – ormai troppo stretta - sul davanti e incrociai le braccia ma, invece di celare l’insolito gonfiore, ottenni un risultato tipo push up. Il cameriere fece un sorrisino di traverso, lasciò le bibite e lo scontrino e, finalmente, si levò dai piedi.
“Hai parlato col tuo bello, eh?”
“No, ti giuro. Però è sempre più difficile nascondere. Sta soffrendo per me. Ultimamente, quando la notte apro gli occhi per orientarmi, lui è lì che mi guarda. Mi sta osservando... Stamani mi ha detto che vuole sapere che mi sta succedendo, è molto preoccupato. E anche io lo sono... soprattutto adesso che...”
Fabienne mi fulminò con i suoi occhi viola
“Adesso che... Finisci, dai!”
“Aspetto un bambino.”
“Ah ah ah.”
“Perché ridi, smettila , mi stai facendo paura.”
“E brava la mia piccina. E lui lo sa?”
“Lascia perdere.”
“Glielo hai detto o no?”
“No... non ancora.”
“Non dirgli nulla, è inutile. Tu sai cosa devi fare. Vero?”
L’uomo del tavolo accanto ci chiese da accendere. Fabienne gli passò l’accendino. Il fumo della sigaretta mi solleticò il naso e mi dette fastidio... a me!, che fumavo due pacchetti di sigarette al giorno!! Quando l’uomo le restituì l’accendino, lei gli disse qualcosa sottovoce, non capii cosa e comunque non ci feci troppo caso: avevo altro a cui pensare. Fabienne tornò a guardarmi: “Allora?” mi chiese.
Mi sporsi col busto in avanti, le braccia appoggiate sul tavolino e le mani incrociate.
“Allora un bel niente! Ascoltami bene Fabienne... io lo tengo”, parlai scandendo bene le parole e guardandola dritta negli occhi con voce ferma ed un coraggio che non credevo più di avere.
“Sai bene che non puoi.”
“Certo che posso, basta che tu mi aiuti.”
“Non credo di poterlo fare. Sarà bene che ne riparliamo... “Si mise ad armeggiare nella borsa. “Tieni, questo è per te” disse “...ora devo andare.”
Mi porse un libro, vecchio e ingiallito. Lo rigirai tra le mani, sembrava scottasse. Guardai il titolo e iniziai a tremare. “Che vuol dire!? “ urlai a Fabienne che era già lontana. Non rispose. La guardai andarsene e provai un profondo senso di smarrimento. Avrei dovuto alzarmi e andarmene, invece decisi di fermarmi ancora un momento per calmarmi e riprendere fiato. Il sole tiepido del tardo pomeriggio mi accarezzava le guance, lo sciabordio delle barche appena mosse dal lieve movimento del mare mi cullava come una musica dal ritmo sensuale. Mi abbandonai sulla poltroncina, lasciai andare la testa all’indietro con la faccia rivolta al sole, chiusi gli occhi e le mani andarono da sole a posarsi sulla pancia ancora invisibile
“Non hai scelta.” La voce mi arrivò come un sussurro, direttamente nell’orecchio. Mi spaventai, avevo dimenticato la presenza dell’uomo con il cappello. Mi voltai di scatto e con il cuore in gola dissi: “Prego?” Avrei giurato che fosse ad un palmo dal mio viso, invece era ancora al suo tavolo. Si girò verso di me e si tolse gli occhiali. Rimasi come paralizzata nel vedere i suoi occhi: vuoti, spenti. Oddio! Era cieco! Il bicchiere che avevo in mano cadde ai miei piedi; mi abbassai per raccogliere i vetri e quando rialzai la testa, lui non c’era più. Non poteva essere sparito. Mi guardai intorno e lo vidi: stava camminando verso la fine del porticciolo, in mezzo a due ragazzi che lo seguivano, a testa bassa, ad un passo di distanza.
sabato 15 settembre 2007
[+/-] |
I Ciechi - II |
[Autore: Daniel Bloom]
Mi svegliai nel mio letto in un bagno di sudore completamente vestito, con un forte mal di testa. Avevo fatto il peggior incubo della mia vita. Il bar del Truce, la foto di Denise, quei ragazzi con le cravatte e quel tipo con gli occhi bianchi. Non era stato un semplice sogno allucinante, questa volta avevo la sensazione di aver vissuto un’esperienza macabra e irreale.
Detti un’occhiata al cronografo: era il 24. Cristo, avevo dormito quasi due giorni.
Feci un giro nella stanza e mi guardai allo specchio appeso alla parete. Avevo la barba lunga, i capelli spettinati. Il mal di testa mi spaccava le tempie. Entrai nella camera di Denise. Era ancora a soqquadro dopo che la polizia era venuta a fare gli accertamenti. Ancora non riuscivo a capire chi poteva averla ridotta in quello stato. La sua morte era stata una delle cose più macabre che la mente umana avesse mai potuto concepire. Trovata in quel lago di sangue senza occhi. Chi avrebbe mai potuto ridurla così.
Denise. Ci eravamo conosciuti tre anni prima, eravamo in biblioteca la prima volta che la vidi. Quei suoi occhi profondi, i suoi morbidi capelli neri e ricci. Ero sempre stato così timido ad approcciare le ragazze... però quella sua aria così intelligente e dolce mi dette il coraggio di parlarle.
Così diversi e così simili. Il cinema, la letteratura, la passione per la musica. Fu un amore immediato. Tutti e due tanto insicuri e curiosi. Le prime uscite e poi la convivenza.
Anni bellissimi, passati insieme prima che quella maledetta idea fissa le prendesse anima e corpo.
Denise era stata sempre attratta dal paranormale, io ci avevo sempre scherzato su, però quella sua mania era diventata via via un’ossessione.
Da circa un anno Denise era diversa, quei suoi occhi così dolci avevano acquistato una fissità inquietante.
Non riusciva più che a parlare di ricevere “la luce”. Tutto era iniziato da quel corso di astrologia dove aveva conosciuto Fabienne. Da quello che mi diceva doveva essere una tipa un po’ stramba. Una signora sulla sessantina. Inizialmente ne parlava con ironia come una vecchia fuori di testa, poi Denise cominciò a parlare di lei come di uno spirito superiore. Quei discorsi mi preoccupavano e lei smise di parlarmene.
Per un certo periodo pensavo che mi stesse tradendo. I suoi ritardi erano sempre più frequenti. E poi quelle strane riunioni del martedì sera da cui tornava certe volte sconvolta.
Pensavo che fosse solo uno di quei periodi di crisi che ogni tanto attraversava.
Mi guardavo intorno la casa era ridotta ad un immondezzaio. Avrei dovuto fare un po’ d’ordine, ma non sapevo come raccapezzarmi.
In un angolo appesa alla parete una sua foto: la stessa dell’incubo. Mi mancò il fiato. Mi accorsi che erano almeno due giorni che non toccavo cibo. Cercavo di riorganizzare le idee. Era troppo tardi per telefonare a qualche amico. Anche il giorno dopo non sarei andato in ufficio. Era una settimana che non mi facevo vedere. Stavo pensando di scappare via.
Non potevo stare in quelle condizioni. Dovevo darmi una mossa. Farmene una ragione.
Di dormire non se ne parlava nemmeno. Cercai qualche libro sullo scaffale. C’erano ancora i libri di Denise ben ordinati. I miei invece erano alla rinfusa i libri di economia insieme a quelli di psicologia e qualche testo di letteratura. La biblioteca di Denise era per lo più di libri di esoterismo e parapsicologia. Edizioni strane di case editrici misconosciute.
Ripensavo a quel sogno: il bar del Truce, quegli strani personaggi che mi guardavano con quell’aria irreale. Più che ci pensavo e più avevo la sensazione di averlo vissuto veramente.
Continuavo quasi ipnotizzato a guardare le costole di quei volumi. Ad un certo punto mi accorsi che un libro era stato messo al contrario. Era un libro vecchio con la copertina ingiallita e scolorita. Si intravedeva un enigmatico titolo: I Ciechi. Un brivido mi percorse la schiena.
Come in preda alla febbre lo aprii e sulla prima pagina era scritta con grafia tremolante e obliqua una dedica: Il cristallo della salvezza è nel cuore della fiamma che arde in eterno, lo vedrai racchiuso nella sfera di luce.
Tutto il sogno come un film alla moviola, nitido preciso e denso, riapparve alla mia mente.
domenica 2 settembre 2007
[+/-] |
I Ciechi - I |
Non sono mai stato convinto che il primo incontro avvenne in modo del tutto casuale. No, non ero stato scelto a caso. Qualcosa dovevano pur sapere, o forse l'avevano intuito. Forse mi notarono già all'ingresso del bar, oppure no...
No. Ero già segnato da prima, da quando scesi dall'autobus. Forse addirittura da quando uscii di casa. Sì, forse fu allora che videro la mia faccia tumefatta dalla disperazione. E mi seguirono.
Bevevo da solo, in piedi, senza guardarmi attorno. Guardavo le foto appiccicate alla parete, la ricoprivano interamente come un enorme poster. In quelle foto la vita del locale era rimasta impigliata, aveva perduto qualcosa di sé, prima di trascorrere. Qualcosa di ancora vivo, di attuale.
La foto di Denise era al centro del collage, la fissavo cercando di animarla tra i ricordi. Tutte le altre immagini le ruotavano intorno, facce che si confondevano e svanivano come fili di fumo. La sua era nitida, ferma, con la risata e lo sguardo rivolti a me.
Sentii una presenza alle mie spalle, mi voltai. Erano due ragazzi, vestiti in modo troppo serio per il bar del Truce: camicia azzurra perfettamente stirata, due penne nel taschino, cravatta blu tanto lucida da sembrare di plastica. Mi sorridevano, con un sorriso inspiegabile. Non potevano sapere quel che mi era crollato addosso negli ultimi due mesi, ma se l'avessero saputo, se ad esempio fossero stati due conoscenti, due vecchi amici, avrei pensato che il loro fosse un sorriso di compassione.
Ma come potevano sapere.
Uno di loro aveva in mano un blocco per gli appunti, spesso e rigido. Feci per aprire bocca, non so bene per dire cosa. Immagino qualcosa di aggressivo: non era il momento giusto per socializzare. Ma prima che fiatassi, il ragazzo con il blocco mi toccò leggermente un braccio con la mano e mi sussurrò all'orecchio una frase che non riuscii a comprendere, ma il cui tono mi stupì, talmente era dolce e rassicurante, come una melodia creata apposta per sciogliere il dolore. Con gli occhi mi fece un cenno e mentre li seguivo verso l'uscita sentivo ancora la mano premere sul mio braccio, come se mi guidasse gentilmente. Come se fosse un gesto del tutto naturale, l'altro ragazzo mi prese il bicchiere e lo poggiò su un tavolo, poco prima di uscire.
Da subito, normalmente avrei reagito male, li avrei spinti, al Truce che sudava dietro al bancone avrei urlato che aveva due checche nel suo locale, di preparare subito due calci in culo. Invece niente, ero troppo ubriaco, troppo sconvolto per la morte di Denise.
E quei due ragazzi mi apparivano talmente sereni e sicuri. Poi c'era quella voce. Perché tanta dolcezza? Cosa mi aveva detto?
Fuori mi appoggiai al muro, il ragazzo che mi aveva parlato prese una penna dal taschino e cominciò a scrivere sul blocco, mentre l'altro iniziò un oscuro monologo. Rispetto a quella che mi aveva incantato, la sua voce era più dura, ma anche questa molto rassicurante. All'inizio non capivo nulla dei suoi discorsi, poi pian piano compresi che parlava del mio dolore, di quanto avevo sofferto, di come potevo liberarmi dalla gabbia che mi opprimeva, dovevo soltanto trovare la luce. La luce.
Come fai a sapere cosa provo? Quale luce? domandavo. Non faceva caso alle mie domande, che forse nemmeno pronunciavo, forse mi limitavo a pensarle, non ricordo. Comunque, presto non domandai più. Mi bastava ascoltarlo, e avevo l'impressione di stare meglio. L'ubriachezza mi abbandonava senza pericolo, senza panico. Ogni volta che spostavo lo sguardo verso il ragazzo che scriveva, lui aveva gli occhi nei miei e mi sorrideva, con la stessa compassione di prima. Ora però mi appariva del tutto comprensibile.
Tra i due ragazzi vidi avvicinarsi un'altra persona. Aperto sulla stessa camicia azzurra e sulla stessa cravatta blu, indossava uno strano cappotto lungo, di panno ruvido, troppo pesante, e un cappello la cui tesa larga e floscia nascondeva parte del viso. Nonostante fosse ormai notte, portava un paio di occhiali da sole. Si fermò a un passo da noi e rimase là a lungo, immobile, mentre il ragazzo continuava a parlarmi. I suoi discorsi si facevano sempre più difficili, pieni di allusioni, di simbolismi incomprensibili. Ma a me sembrava di stare meglio, grazie a quelle parole.
Il cristallo della salvezza è nel cuore della fiamma che arde in eterno, lo vedrai racchiuso nella sfera di luce.
L'uomo con gli occhiali strinse una spalla del ragazzo, che subito smise di parlare. Lui e il suo compagno si fecero leggermente da parte e l'uomo passò in mezzo a loro, avvicinandosi tanto a me che potevo sentire il calore umido del suo respiro. Sembrava mi odorasse. Fiutava con avidità il sangue di una preda. Poi si tolse gli occhiali da sole, lentamente, lentamente. Io non pensavo, avevo smarrito tutti i pensieri. Guardavo stupito quegli occhi. Erano completamente bianchi. Senza iride, senza pupille. Perfettamente bianchi. Eppure sembrava mi vedessero, che vedessero anche quel che io non riuscivo a pensare. Vieni con noi, mormorò l'uomo. E così feci.
domenica 15 luglio 2007
[+/-] |
Sangue a West Hollywood - VI |
La casa era una villetta su due piani con piscina.
Parcheggiai un isolato distante. Feci il giro dell’abitazione. Mi affacciai dal recinto: c’era la Cadillac parcheggiata. La donna era ancora in casa.
Suonai il campanello e mi aprì il solito maggiordomo imbalsamato. Li facevano in serie quei tipi.
La signora Roscoe era uscita, e non sapeva quando sarebbe tornata. Me lo immaginavo.
Aspettai, appostato all’angolo, dall’uscita posteriore la macchina parcheggiata stava uscendo.
Se la stava squagliando.
Corsi come un matto con il braccio fasciato e la ferita che si stava riaprendo, verso la mia macchina.
La donna stava dirigendosi verso Santa Barbara, da lì sicuramente avrebbe preso qualche mezzo per andarsene.
A due chilometri da santa Barbara vidi che stava rallentando, girava da uno svincolo su per una collina. Tenni la distanza senza perderla mai di vista.
La macchina si era inoltrata in una specie di boscaglia, non la vedevo più. Non potevo farmela, scappare.
C’era una pista per sidecar recintata con del filo spinato.
Scesi dalla macchina e cominciai a cercare. Un capanno malmesso era nascosto tra degli alberi. Accanto la Cadillac.
Presi la pistola, la misi in tasca e mi avvicinai con cautela. Eccola di spalle.
“Miss Roscoe come sta?
Le disse a voce ferma
Si girò di scatto sorpresa.
“Boreinstainn che piacere vederla, ho saputo che si è fatto fregare sotto il naso il mio diario, forse era meglio se mi rivolgevo a un vero professionista…comunque sono generosa e le voglio dare questi duecento dollari per il suo impegno. Si tolga dai piedi”
“E’ incredibilmente generosa, ma prima vorrei parlare con lei di un paio di cosette”
“Mi dispiace Boreinstain, sono un po’ indaffarata..”
Sfilai la pistola dalla tasca e gliela puntai. Non sembrò sorpresa. Era più dura di quello che credessi.
“ha delle ottime argomentazioni mr.Boreinstain lo sa. Bene diciamo che quei 200 dollari possono diventare 1000”
“Mi dia la sua borsa la prego e faccia meno la spiritosa”
Si girò e provò a incamminarsi
Sparai un colpo in aria
Si fermò e girandosi di nuovo mi guardò minacciosa.
“Mi lasci andare, lei non sa cosa sta rischiando”
“Poche storie mi dia la borsetta se non vuole che le rovini il trucco..”
Mi avvicinai puntando la pistola diritto in mezzo agli occhi
Le strappai la borsetta e con la mano malmessa provai ad aprirla
Dentro c’era un quaderno proprio uguale a quello che avevo visto a casa di Michael Cronny..
“sono riuscita a recuperalo da sola, fallito…”
Stava annaspando e io provai un brivido di soddisfazione.
“Smetta di fare la commedia. Questo diario non è mai uscito da casa sua, non è vero?
E’ sta tutta una montatura per distrarre Llloyd Anderson. Lei aveva fatto uccidere suo marito dalla guardia del corpo Peter Landley e poi gli aveva sparato inscenando la rapina. Aveva poi dato dei soldi a Michael Cronny per tenerle un diario un falso, diario proprio uguale a questo.
A quel punto sono arrivato io che come un allocco ho fatto da esca per gli scagnozzi di Lloyd che stavano cercavano il quaderno con le formule. Lei sapeva dove abitava Cronny e l’aveva freddato prima che entrassi. Gli scagnozzi di Lloyd mi hanno sottratto il falso diario dalla tasca pensando di recuperare quello vero e lei fuori da ogni sospetto stava cercando la fuga con il ricettario magico.
Quelle formule servono per qualche progetto industriale vero?”
“Lei è molto intelligente Boreinstain, si merita un premio molto più alto, se non altro per il disturbo arrecato. Direi potremmo trovare un giusto compromesso. Cinquanta e cinquanta. Sto andando ritirare un milione di dollari”
Mentre mi diceva queste cose si accomodava il cappello e mi accorsi che stava tirando fuori come un prestigiatore una rivoltella tascabile”
“stia ferma o sparo…”
Non accennava a fermarsi. Puntai in mezzo agli occhi e sparai. Cadde di colpo
Il dolore alla spalla pulsava come una locomotiva d’improvviso mi sentii svenire.
Raccolsi tutte le forze e mi avvicinai al corpo.
Avevo fatto centro. Ripresi il quaderno da terra.
Quei geroglifici riuscivano ad avere un fascino perverso.
Quegli sgorbi d’inchiostro valevano più di cento mie vite messe insieme.
Era roba per l’industria, formule chimiche per chissà quale utilizzo: miscele esplosive, creme di bellezza, forse componenti per qualche altra schifezza alimentare che avrebbe intossicato il mondo.
Accesi una sigaretta e con il fiammifero appiccai il fuoco al quaderno.
Era finita un’altra dannata giornata. La polizia sarebbe giunta a breve, una volta trovato il corpo avrebbero imboscato tutto. Routine.
Per un po’ sarebbe stato meglio prendermi una vacanza.
Era stata un’altra sporca storia, un’altra carneficina.
Mi incamminai verso la macchina, guardai il cielo, stavano arrivando le nuvole, un po’ di sollievo a quel caldo infernale. Mi apparve il volto Marion, il suo dolce sorriso mi bruciava ancor più che la ferita.
Avevo bisogno solo di un buon bourbon.
domenica 1 luglio 2007
[+/-] |
Sangue a West Hollywood - V |
di Daniel Bloom
Tutto sommato era stata una serata fortunata, la pallottola mi aveva solo penetrato la spalla senza toccare gli organi vitali.
Grazie a Dio quel barbone a cui avevo dato mezzo dollaro mi aveva trovato tra i bidoni dell’immondizia e aveva chiamato soccorso. Qualcuno mi aveva seguito cercando di farmi la pelle e sottrarmi il quaderno con le formule. Per mia fortuna il tiratore non era dei migliori.
Mi svegliai completamente in stato confusionale al Saint Mary L.A. Hospital. Si avvicinò un’infermiera con un calmante. Mi disse che avevo visite. La polizia sicuramente.
Era quel maiale di O’Nell con uno scagnozzo appena uscito dall’accademia che puzzava ancora di latte. O’Nell era uno sbirro corrotto, se la faceva da anni con Lloyd Anderson, lo sapevano tutti, ma era un intoccabile.
“Guarda guarda chi si vede, hey Boreinstain, sai un uccellino che passava mi ha detto che eri al Saint Mary in fin di vita con una spalla trapassata da un proiettile. Ed eccomi qui.”
“Sono commosso dal tuo interessamento”
“Sei la solita testa calda Daniel, prima o poi se non stai attento ti succederà qualcosa di grave”
e rise con quel suo ghigno suino.
“Sei il solito figlio di puttana,O’Nell ”
“Stai attento Boreinstain, questa volta ti è andata di lusso, sei entrato in un giro più grosso di te potresti farti veramente male. Andiamocene Patrick anche oggi abbiamo fatto la nostra buona azione” disse O’Nell rivolgendosi al pivello.
”Goodbye Boreinstain, e stai in campana…
Quella visita era un avvertimento di Lloyd Anderson, c’era di mezzo anche lui, e quel colpo era stato sparato da uno dei suoi uomini.
Quel porco schifoso di O’Nell mi aveva messo di cattivo umore e già non sono un tipo con il sorriso facile.
Bel caso. Una spalla fuori uso, inserito nella lista nera di Lloyd Anderson, derubato anche della pistola e per di più addio ai 10000 verdoni evaporati con il diario. Forse era meglio fare il rabbino.
Dopo una settimana fui dimesso, tornai in ufficio il caldo non accennava a diminuire e per via della ferita ero costantemente spossato. Mrs Sturton era scomparsa nel nulla come quel suo maledettissimo diario. A me non restava che aspettare qualche padre che aveva perso le tracce del figlio drogato o qualche marito tradito alla ricerca della moglie scomparsa. Sopra l’armadio, ben nascosta presi la mia pistola di scorta.
La stanza era rimasta come l’avevo lasciata. All’angolo della scrivania sempre quel giornale ingiallito di mesi prima. Era rimasto aperto alla notizia dell’omicidio di Peter Landley, il pesce piccolo, guardai la fotografia attentamente, questa volta il fotoreporter aveva fatto un gran bel lavoro: riprendeva il morto e la piccola folla accalcata lì vicino, come succede in questi casi.
A un tratto mi sembrò di riconoscere qualcuno tra la folla, misi a fuoco stringendo gli occhi, era lei Mrs Janet Roscou, con i suoi occhiali da sole.
Qualcosa mi diceva che mi avevano incastrato. E alla grande.
Uscii di corsa dall’ufficio. Montai in macchina. Dovevo avere qualche informazione. Mi spinsi a L.A. sud e andai alla ricerca di qualche vecchio informatore nel boulevard.
Franky Dollaro era sempre lì con la sua bottiglia di vodka ormai era fuori uso ma qualche informazione me la poteva ancora dare.
“Hey Franky”
“Io non ti conosco e non so nulla amico, vai fuori dai piedi che sto lavorando”
Il vecchio Franky non era un tipo facile ma la sua debolezza per gli alcolici lo ammansiva come un agnellino.
“Hey Frank, dai non fare il difficile, passavo di qui e ho pensato perché non bere un bicchiere con un vecchio amico...”
“Se è per bere ti accompagno amico ma non saprai niente perché non so niente amico”
“Lo so lo so Franky sei fuori…”
Lo accompagnai al bar e ci bevemmo quattro gin. Cominciava a girarmi la testa, alla fine però sputò il rospo e come mi immaginavo prima di morire Peter Landley era entrato al servizio di Roscoe come sua guardia del corpo.
Tutto cominciava a quadrarmi.
Mi avevano incastrato e io c’ero caduto come un fesso. Presi la macchina e andai di corsa verso West Hollywoood.
Dovevo trovare Mrs Jennifer Surton-Roscoe.
martedì 26 giugno 2007
[+/-] |
a S. ('a Stronzo) |
Il prossimo che mi dice che, quando conosci una persona e senti squillare fanfare e trombe e vedi cuoricini negli occhi di tutti, significa che è scoccato il colpo di fulmine, lo metto su una pira e gli do fuoco.
Sabato scorso ho conosciuto un ragazzo che nemmeno nella migliore tradizione dei serial televisivi adolescenziali poteva essere più bello. Ci vado a cena, passiamo una notte infuocata di sesso insieme e dopo una settimana di telefonate, sms, messanger su internet con toni simili a quelli di due fidanzatini delle medie, mi snocciola il seguente rosario:
- uno, non vive a Roma come me, era semplicemente in visita di un amico;
- due, ha già la ragazza fissa. Lei fa la vigilessa a Firenze dove vivono entrambi;
- tre, il padre della sua ragazza è in ospedale e lui in questo momento è confuso e non può farle questo e deve starle vicino perchè ha un impegno nei suoi confronti.
'A stronzo, ma i sensi di colpa non ti sono venuti mentre mi scopavi sabato scorso?
Mi ha assalito un'angoscia che nemmeno il tacchino prima del giorno del Ringraziamento.
Poi mi sono detta, ma con chi cazzo crede di avere a che fare?
Così stamani sono andata alla stazione, ho comprato un biglietto per Firenze e mi sono presentata nella sua città senza anticipargli minimamente niente. Quando gli ho mandato un messaggio per comunicargli la lieta novella, pensavo che si sarebbe incazzato. Invece corre a prendermi alla stazione e con quel suo sorriso del cazzo stampato in volto mi dice che posso fermarmi lì e dormire da lui. Tanto la vigilessa è a dirigire il traffico a casa di sua mamma per aiutarla con il padre moribondo.
E io penso, ok...stanotte almeno scoperemo di nuovo.
Invece arriviamo a casa sua e inizia a fare discorsi senza nè capo nè coda.
Prima mi dice che io sono un gradino sopra tutte le altre, ma in questo momento di crisi con la sua lei, lo destabilizzo. E questo posso accettarlo.
Poi mi dice che ha bisogno di tempo per chiarirsi con se stesso. E anche questo posso accettarlo.
Poi sospirando mi rimette insieme che ha sbagliato a fare sesso con me lo scorso weekend. E, con grande sforzo, accetto pure questo.
Ma poi pronuncia la frase che ogni ragazzo con un minimo di sale in zucca sa che non bisogna mai rivolgere a una ragazza: dice che vuole che proviamo a iniziare come amici. E questo, IO, non lo accetto.
A quel punto ho chiamato un taxi per tornarmene più veloce della luce a Roma, ma quando mi sono ritrovata per strada ci ho ripensato. Di solito non compio azioni sconsiderate, ma stamani non ci ho davvero visto più dalla rabbia.
Davvero gliela davo vinta così?
Ho chiesto al taxi di aspettarmi un quarto d'ora.
Sono andata al distributore accanto a casa sua e ho chiesto al benzinaio una tanica di verde che ero rimasta ferma. Sono tornata a casa sua e ho iniziato a innaffiare le pareti. Hai voluto il villino a piano terra? cazzi tuoi!
Quando ho citofonato e lui ha aperto la porta, senza batter ciglio gli ho rovesciato addosso la benzina rimanente.
E' stato bellissimo vedere quei cazzo di occhioni azzurri che mi fissavano impauriti.
Ho preso una sigaretta e me la sono infilata in bocca. Poi ho acceso un fiammifero e ho aspettato. Lui ha balbettato qualcosa. Io ho soffiato sulla fiamma per spengerla ed è stato allora che lui ha rilasciato le viscere.
E allora ho pensato: biglietto Roma Firenze andata e ritorno, 60 euro con mastercard. Pieno di benzina senza piombo in tanica, 40 euro con mastercard. Taxi che ti aspetta per quasi venti minuti e poi ti porta alla stazione, 30 euro con mastercard. Vedere il ragazzo che ti ha preso per il culo cagarsi addosso, non ha prezzo.
domenica 17 giugno 2007
[+/-] |
Donna in Corriera - III |
La montagna di vestiti già provati e scartati aumentava ai suoi piedi. Dopo un’ora e mezza di prove era sudata come un camionista in viaggio da Roma a Milano, in pieno agosto, epoca fine anni 70 quando ancora l’aria condizionata era un lusso riservato a pochi eletti e l’unico attrezzo in commercio in grado di creare l’illusione di un po’ di frescolino era il ventilatorino attaccato al vetro con la ventosina e direzionato in pieno viso del povero diavolo.
Insomma, si ricacciò sotto la doccia, poi ripescò dal mucchio sul pavimento il pantalone nero, la camicetta bianca e la giacca nera e, soddisfatta, uscì.
Quando entrò in ufficio le gambe le facevano Giacomo Giacomo. Il suo primo giorno di lavoro, dopo tanti anni, che emozione !
Le vennero presentati tutte le colleghe e i colleghi. Si sforzò di imprimere nella mente almeno una parte dei nomi ben associati ad ogni volto ma non ne ricordò nemmeno uno. Venne catturata dal capo vendita che le consegnò un elenco del telefono, due penne e altri attrezzi del lavoro, due o tre chili di listini e una chilometrica lista di nominativi da contattare.
Iniziò così e da quel giorno la sua vita prese un’altra piega. Di Marco, a parte la posta a lui indirizzata, più nessuna notizia.
Fino al giorno in cui…
Stava uscendo dall’ufficio di un cliente e se lo ritrovò di fronte: “Ma quarda guarda chi si vede… e che forma splendida!
Lara si limitò ad un frettoloso: ciao Marco, tutto bene?
“Alla grande. Anche tu, vedo. Prendiamo un caffè insieme ? come due vecchi amici… ”
“No scusa ma ho fretta, un appuntamento di lavoro tra venti minuti all’altro capo della città”
“Un lavoro? Complimenti. Ma a quest’ora non ce la farai mai con la corriera, vieni ti do un passaggio”
“No grazie non preoccuparti, ce la farò. Ciao ”
“Ok. Magari ci vediamo uno di questi giorni… quando vengo a ritirare la posta”
Lara non rispose, si diresse verso una Volkswagen verde pisello, vecchiotta ma ancora in buono stato e… decorosa, a suo modo. Entrò, con stupore di Marco, al posto di guida, mise in moto e con due manovre, precise al millimetro, uscì dal parcheggio.
Quando passò di fronte ad un Marco semiparalizzato dalla sorpresa, Lara aprì il finestrino e gli disse: “A proposito, non credi che sarebbe ora di comunicare all’ufficio postale il tuo nuovo indirizzo ?”, quindi se ne andò. Dallo specchietto retrovisore vide che Marco era ancora immobile, lì dove lo aveva lasciato. Le sembrò molto meno alto e grosso: più lei si allontanava più lui era piccolo. Poi l’auto svoltò l’angolo e Marco scomparve.
Rifletté sulle sue parole: “… come due vecchi amici”.
“Sì, amici un cazzo!” pensò “un amico mi avrebbe almeno insegnato a guidare”
venerdì 15 giugno 2007
[+/-] |
Donna in Corriera - II |
La cassetta delle lettere era stracolma, come al solito, e Lara - come al solito - la ignorò.
Era l’inquilina del pianterreno, la signora Bartolini. Di certo l’aspettava al varco, acquattata dietro la porta, con l’occhio strabico appiccicato allo spioncino. In un primo momento pensò di mandarla in culo per direttissima, poi ci ripensò: “Ohhh, ha ragione, mica me ne ero accorta, grazie”. Tornò su suoi passi, aprì la cassetta e una valanga di carta la investì.
Salendo le scale Lara diede una sbirciata alla posta che teneva tra le mani. Bollette, depliant pubblicitari, resoconti della banca, due cartoline e una paccata di posta per Marco. Ancora !!
Questa storia cominciava ad infastidirla seriamente: non abitava più lì da otto mesi, ovvero da quando si erano lasciati, e il signorino ancora non aveva fatto la variazione di residenza. Era come se non volesse tagliare del tutto quel cordone che li aveva uniti per tanti anni e questo atteggiamento le faceva venire in mente la storia di pollicino e le sue molliche di pane.
Forse avrebbe dovuto pensarci lei, andare all’ufficio postale e comunicare il nuovo indirizzo di Marco, ma non aveva il coraggio di farlo per paura di ferirlo.
Marco… chissà che avrebbe detto del suo nuovo lavoro. Indubbiamente avrebbe cercato di smontarla “Vuoi fare la donna in carriera ? ah ah ah... in carriera... con la corriera... ahahaha”
Al suo fianco si era sempre sentita una nullità, anche soltanto per la stazza: Marco era alto e grosso e importante. Lui era perfetto, lei era tutta sbagliata.
Ogni volta che esprimeva il desiderio di iniziare a lavorare, lui le diceva: “Ma lascia perdere, io guadagno abbastanza per tutti e due. E poi la casa ha bisogno di una regina… ”.
Regina ? la schiava, semmai. Ogni scusa era buona per farla sentire una incapace; come quando discutevano della sua paura di guidare: lui la prendeva in giro la stuzzicava, ma quando Lara gli chiedeva di farla provare a guidare e di aiutarla a superare il timore, Marco trovava sempre qualche pretesto per non farlo.
Adesso capiva che era così che lui la voleva : totalmente dipendente.
Infilò la chiave nella serratura e come di rito chiuse gli occhi. Nell'ingresso li riaprì e lo sconforto si impadronì di lei: la fatina con la bacchetta magica non era apparsa nemmeno oggi. L’appartamento si presentava con lo stesso, caos di sempre. Artistico forse, ma pur sempre caos.
Il gatto la accolse con uno dei suoi agguati ma ci rimase molto male . Leo, gattone rossiccio, bello ma rompipalle, faceva sempre cosi : attendeva che Lara entrasse in casa e con un balzo spuntava all’improvviso dalla porta della cucina, le addentava le gambe e poi scappava.
Quel giorno Lara aveva gli stivali.
Dedicò il fine settimana a fare le pulizie di primavera... quella dell’95 ! e anche fuori stagione visto che era quasi natale. Fu una sorta di mission impossible ma ne uscì vittoriosa. Erano le dieci di sera di domenica quando finalmente si fermò. Si guardava intorno soddisfatta, non le sembrava più nemmeno la stessa casa, tutto quell’ordine ricordava la casa di Barbie, mancava solo Ken! Lara respirava beata quel profumino di pulito. Ahhh, da quanto tempo non si sentiva così.
Si lasciò andare di schianto sulla poltrona e... mmmmmiiiaaaaooooooo ! vide il gatto schizzare verso l’alto, fare un triplo salto mortale e subito dopo, scivolando sul pavimento lucidissimo, dirigersi come un razzo verso il terrazzino. Povero Leo… Lara si sentì un pochino in colpa ma le venne da ridere per la scena e poi, pensandoci bene, almeno per quella sera il gattastro l’avrebbe accuratamente evitata.
mercoledì 13 giugno 2007
[+/-] |
Donna in Corriera - I |
“Benvenuta nella nostra grande famiglia : l’aspettiamo lunedì allora...."
Il direttore commerciale le strinse la mano, Lara uscì con il cuore in gola, felice; non era proprio il lavoro che cercava ma per il momento poteva andare.
Si vedeva già donna in carriera, sicura di sé, realizzata, ammirata, indipendente; avrebbe conosciuto tante persone e allargato i propri orizzonti.
Camminava spedita con la testa piena di idee e progetti. Di fronte ad una vetrina scorse la propria immagine riflessa e si accorse del sorriso che involontariamente le si era impresso sulle labbra.
Pensò e ripensò all'incontro, al colloquio, alla scheda che aveva compilato... Già, la scheda! Il sorriso scomparve. Aveva mentito spudoratamente! Ma era l’unica cosa da fare: alla domanda "Automunita ?" aveva barrato la casella “Sì”. Beh! in fondo era vero: l'auto ce l'aveva la patente anche... quello che le mancava era il coraggio di mettersi al volante.
In tutta la sua vita aveva guidato si e no dieci volte, comprese le 9 lezioni e 1 esame di guida.... Stop! Il giorno che le arrivò la patente andò a comprare un’auto di seconda mano, di un colore impossibile - ma quello era ciò che passava il convento -. La ritirò dopo una settimana, la guidò dal concessionario fino a casa dei suoi e la parcheggiò nel cortile condominiale. Dove tutt’ora giace. Guidare, in realtà, non le era mai interessato veramente, aveva sempre avuto fidanzati e amiche automuniti, inoltre le piaceva camminare e quando le gambe non bastavano aveva sempre ovviato con il treno o la corriera...
Insomma, fino ad oggi l'aveva sempre sfangata ma si rese conto che era arrivato il momento di fare i conti con il proprio bloccasterzo mentale. L’incarico richiedeva spostamenti non solo in città ma anche fuori, e l’auto, come le aveva detto e sottolineato il direttore dell’azienda, era fondamentale!
Porcaccia la miseria, il solo pensiero le fece venire uno strizzone di pancia.
Entrò di corsa nel primo bar che vide, inciampò nella soglia e, dopo un volo che le parve interminabile, atterrò stile rondine su uno dei tavolini stile liberty apparecchiati per il brunch.
Quando aprì gli occhi vide un angelo. Oddio, pensò, sono morta. Sono finita sotto un tir, adesso sono in paradiso (chi l’avrebbe mai detto!) e questo è l’angelo che mi accompagnerà al mio monolocale sulla via lattea, con vista panoramica su Nettuno.
“Signorina, come và?”. "Oh, benone, grazie… e lei ?".
Il tipo ridacchiò: "Io non sono svenuto, lei si"
"Mamma che figura ! Sono caduta, vero?"
"Beh, si… ma con stile, le assicuro".
Lara si toccò la fronte e dal bernoccolo sporgente capì che era andata giù di testa come una meteora e non per metafora. In compenso lo stimolo che l'aveva fatta precipitare nel bar era scomparso.
"Lo vuole un bicchiere d’acqua?”
"Si, grazie"
Si accorse che era molto molto carino. Stava già facendosi il suo film mentale quando un secondo angioletto con due spalle così le porse gentilmente il bicchiere di acqua. Lara lo squadrò ben bene. Constatò che, in quanto a bellezza, non aveva niente da invidiare al primo soccorritore e si immaginò già contesa dai due, innamorati persi di lei. I due ragazzi la aiutarono a mettersi in piedi, le chiesero se aveva ancora bisogno di aiuto, quindi la salutarono, le fecero gli auguri e uscirono dal locale mano nella mano.
Lara li seguì con lo sguardo, la faccia da ebete ed un velo di delusione negli occhi.
Con la mano sul bernoccolo si avviò verso la fermata del bus continuando a pensare a quei due: certo che erano proprio belli insieme, una coppia perfetta... come Stanlio e Ollio, Ginger e Fred, Sussi e Biribissi, Cip e Ciop, Kit e Kat e la mozzarella sulla pizza. Perfetti, si ! che peccato però: con tutta la fame che c’era in giro!
Forse prese la corriera o forse ci arrivò a piedi fatto sta che, senza nemmeno accorgersene, si trovò di fronte al portone di casa.
La cassetta delle lettere era stracolma, come al solito, e Lara...
sabato 9 giugno 2007
[+/-] |
Sangue a West Hollywood - IV |
di Daniel Bloom
Ne avevo viste di case fatiscenti ma quella era un vero disastro, siringhe monouso dappertutto, un letto ricavato da dei cartoni, al muro una riproduzione dozzinale incorniciata di qualche dannato pittore europeo. C’è un odore insopportabile di muffa e cibo avariato.
Il ragazzo era disteso per terra con gli occhi fissi al soffitto, dalla camicia bianca spuntava un foro bruciacchiato con del sangue ancora fresco. Qualcuno era arrivato prima di me, probabilmente gli avevano sparato con un silenziatore. Quel diario bruciava. Ormai era chiaro.
Non c’era traccia di nessuno, qualcuno l’aveva fatto fuori e se ne era andato in tutta fretta. Perché?
Era un fottuto rompicapo ma non avevo tempo per pensarci. L’unica cosa era capire se il diario era ancora lì o era stato già requisito. Misi i guanti per non lasciare impronte.
Con la destra tenevo la mia colt ben ferma e con la sinistra iniziai a frugare in tutta quell’immondizia. Stavo sudando come una puttana, “stai calmo Daniel, calmo,” mi dissi.
Da un cassetto spuntarono, raccolte e legate con uno spago, una ventina di buste. Ne aprii una. La calligrafia era ordinata, le lettere grandi.
Caro Michael,
tuo zio Gorge ed io siamo molto contenti che le cose ti stiano andando per il verso giusto. Non abbiamo capito che tipo di lavoro stai facendo ad Hollywood. Quando potremmo vederti finalmente sullo schermo? Sai, zio George è impaziente.
Ci manchi tanto, purtroppo non abbiamo ancora i soldi per venirti a trovare ma spero che presto tu possa venirci a fare visita. La tua camera è ancora lì pronta ad accoglierti.
Ti abbraccio forte
zia Mary
Chissà che balle aveva inventato quel povero balordo. Era solo, l’ennesimo povero ragazzo di provincia alla ricerca di fortuna, un’altra vittima del sogno americano, un’altra vittima di quell’infernale città degli angeli.
Il ragazzo si era infilato in quella storia e adesso io con lui.
Continuai a cercare. Solo cianfrusaglia e libri di poesia da finocchi. Del diario nessuna traccia, volevo schiodarmi da quel posto, pensai dove avrebbe potuto tenere nascosto una cosa così importante un tipo come lui. Poi a un tratto un’illuminazione. Cercai il dipinto con quella specie di alberi in decomposizione, spostai verso me la cornice e come un sasso vidi cadere un libercolo con la copertina blu.
Era un semplice quaderno, aprii per vedere che cosa c’era dentro. Formule, formule e formule chimiche, che diavolo, non una cazzo di lettera riconoscibile né un nome o una data.
Come avevo sospettato era qualcosa di veramente grosso anche per me.
Presi il diario lo nascosi nella tasca interna e con estrema calma mi avvicinai alla porta. Dovevo squagliarmela velocemente da quella fogna.
mercoledì 6 giugno 2007
[+/-] |
Senso civico |
Era come un faro di quelli che pur costruiti sulla costa sono circondati dal mare, una luce così forte che non penseresti possa provenire dall’appartamento del piano di sopra e sparata giungere anche sul palazzo di fronte distante un giardino, una strada ed un altro giardino. Il palazzo era dipinto di bianco e illuminato di bianco, come quei grandi teli dove si proiettano i film d’estate quando fa caldo e lo sfarfallio della proiezione è fatto di vere farfalle notturne.
Oltre il palazzo passavano sul cielo le piccole luci di aerei e stavano ferme due, tre stelle e uno spicchio di luna, tutto attorno c’era l’odore pregno di pesce fatto alla griglia.
Il faro teneva di mezzo le ombre di chi nell’appartamento andava e veniva, potevano essere due persone, architettavano qualcosa, sospetti erano anche i rumori che si sentivano improvvisi. Le ombre cadevano sul palazzo di fronte con dimensioni che non erano loro, venivano moltiplicate e di molto, si pensi che una testa proiettata andava ad occupare più di un metro, risultavano così delle figure enormi che non sembravano neppure vere eppure parevano più che vive, da quanto si muovevano.
Di una donna, è probabile che un’ombra fosse di una donna perché la testa tradiva i capelli ben lunghi, e poi un uomo la cui testa i capelli restavano corti, solo due persone andavano avanti e indietro sotto i riflettori, sparate ed ingrandite sul muro.
Io credo che il sapere di essere trasmessi, seppur in bianco e nero, avrebbe loro interdetto l’agire perché quel che fecero, a farlo sapere in giro, non credo ci tenessero.
Appena dopo il fatto una macchina col motore acceso si fermò proprio all’entrata del palazzo.
Rumori pesanti e sospetti si rincorrevano per le scale.
112, 113, 118 quali sono i numeri da chiamare in questi casi?
Quanto il tempo da aspettare? E cosa dire?
“ Credo che quelli di sopra stiano facendo qualcosa di illegale! Credo abbiano accoppato uno! Credo che il tappeto arrotolato che stanno caricando in auto sia troppo pesante per essere solo un tappeto! Sì, leggo i romanzi gialli, Camilleri, Lucarelli, anche Faletti per non parlare di quelli stranieri. Sì, guardo Colombo, Derrik, Carabinieri 6, La Squadra 4, CSI, RIS, Cold Case, NCIS, Rocca, Montalbano sono, Don Camillo, Un giorno in pretura e Chi l’ha visto.
Questi ultimi non sono telefilm? Davvero? ”
Qualche giorno dopo quella sera piena di luci e rumori la polizia venne per un sopraluogo perché una soffiata anonima face annusare la pista giusta agli ispettori.
Senza di questa avrebbero brancolato nel buio, ora invece erano risoluti ad assicurare alla giustizia i rei che altrimenti, in barba alla legge, l’avrebbero fatta franca tagliando la corda.
Un poliziotto venne a suonare al mio numero, dal citofono mi apparve l’uniforme e nell’attesa che salisse al piano mi colse l’istinto di sbarazzarmi di tutto quello che non era bene che un agente vedesse, però in quei pochi secondi non trovai nulla valesse la pena nascondere, forse se avessi avuto almeno più tempo…
Il poliziotto con risoluta gentilezza mi chiese se in quei giorni avessi notato qualcosa di sospetto, movimenti inconsueti o rumori strani.
Senza esitare gli dissi di no.
domenica 27 maggio 2007
[+/-] |
Sangue a West Hollywood - III |
di Daniel Bloom
Ormai erano le due passate ed ero già stato al Waggy di West L.A., al Lighting Strike sul Sunset Boulevard e al Molotov sulla Santa Barbara Avenue; di Michael Cronny nemmeno l’ombra.
Un barista del Waggy in vena di confidenze mi aveva detto che l’ultima volta che avevano visto Cronny era stato un paio di settimane prima. Aveva fatto la sua solita marchetta nel locale ed era uscito accompagnato da un cinquantenne dall’aria danarosa.
Mi restavano ancora una decina di club dove poterlo incrociare. Quella sera non era una serata fortunata, ero esausto, frequentare quei posti da invertiti mi dava il voltastomaco. E inoltre in quei club servono del pessimo whiskey.
Mi recai sulla tredicesima all’incrocio con Mullholland al Race, all’entrata del locale sul lato posteriore un gruppetto di giovani drogati alla ricerca di qualche pollo voglioso da spennare per la notte, stavano girando come cani affamati, pronti a tutto.
Tra quei tipi vedo un ragazzo che risponde alle caratteristiche di Cronny, mi avvicino, i tipi sospettano, e così accendo una sigaretta e mi allontano. Maledizione, non ero mai riuscito a togliermi l’aria da sbirro.
Sento di spalle un tipo che si rivolge al ragazzo biondo chiamandolo per nome Michael. È lui il mio uomo, mi allontano, sembra affaticato, giornata magra anche stasera niente dose. Rimane fuori del locale.
Aspetto per circa un’ora quando il ragazzo prende e svolta l’angolo, ci siamo amico! la mia corriera per i 10000 dollari si sta mettendo in moto.
Si incammina fino a un incrocio poi prende per la Hollywood Boulevard, siamo alla periferia estrema di L.A.
Mezz’ora di strada a piedi, lo tengo a distanza si avvicina a un palazzo fatiscente, tira fuori una chiave, la introduce e gira. Ci siamo Daniel, è tuo. Aspetto che entri.
Decido di rimanere ancora qualche minuto. Un barbone ubriaco passa per strada e mi chiede dei soldi, ho mezzo dollaro in tasca. Glielo do per scaramanzia.
Dalla tasca tiro fuori una lima e faccio leva. Si apre come una serratura di burro. Ora devo trovare l’appartamento. Tiro fuori l’automatica, la metto in tasca. Ho una scarica di adrenalina. Mi spingo per le scale al primo piano vedo una porta semichiusa, entro. Avevo fatto centro, era l’appartamento di Cronny.
mercoledì 23 maggio 2007
[+/-] |
VII - Caffè Amaro |
“Aò, cazzone, ma sei con noi o no? A che cazzo stai pensando?”
La voce di Luca mi fa trasalire. Lo guardo con due occhi inebetiti che devono farmi assomigliare a un bue che guarda passare un treno sulla rotaia davanti al suo pascolo. Fabio che siede accanto a Luca mi fissa con comprensione.
“Stai bene?”, mi chiede.
Non so cosa rispondere. Che ci faccio al bar con Luca e Fabio? Oggi sono andato dal dentista, poi sono uscito e...ah, sì, mi sono incontrato con i miei amici per un pezzo di torta e un caffè.
Abbasso lo sguardo e noto la tazza e il piatto con la fetta di dolce ancora intatta.
“Sto bene”, rispondo alla fine, “sto bene, è solo che...”
Luca e Fabio mi guardano:
“Cosa?”, dicono quasi all'unisono.
Mi passo una mano tra i capelli e dico:
“Non so...è come se mi mancasse un pezzo. Quando siamo venuti qui?”
“Ok”, dice Fabio, “ora mi fai davvero preoccupare. Mangiati la torta che è meglio.”
Scuoto la testa e guardo la torta al semolino. Mi viene l'acquolina in bocca. E' così invitante. La base di pasta frolla è solida e compatta. Il cioccolato sopra è di un marrone lucidissimo. Solo a guardarla mi sembra di sentirne il sapore.
Taglio un pezzo con la forchetta e me lo ficco in bocca. Luca e Fabio mi guardano con aria apprensiva, come se stessero aspettando un mio commento sulla torta. Io mastico senza dire niente e, quando deglutisco il boccone, rimango in silenzio.
“Allora?”, fa Fabio.
“Com'è, cazzone?”, lo segue a ruota Luca.
“Come vuoi che sia”, rispondo, “buona! Come sempre!”
Ho l'impressione che i miei amichetti tirino un sospiro di sollievo. Nemmeno l'avessero fatta loro la torta!
“Scusate”, torno a chiedere dopo un'istante, “io oggi sono andato dal dentista...poi ci siamo visti qui?”
“Ma hai bevuto?”, fa Fabio, “ci siamo visti all'uscita del dentista e poi siamo venuti qui tutti insieme.”
Annuisco, ma c'è qualcosa che non mi torna.
Mentre sorseggio il caffè – che solo a vederlo mi pare amaro da quanto è nero – ripenso a quando sono uscito dallo studio del dentista. E' vero, ho incontrato Fabio, e poi Luca...ma non sono anche andato a casa? Perché ho questa sensazione di aver perso un pezzo?
“Fabio!”, la voce di un uomo mi fa tornare alla realtà. Se ne sta in piedi accanto al nostro tavolo.
“Signor Roberti”, dice Fabio, “come va?”
E' vestito da lavoro, con un elmetto giallo in mano come gli operai dei cantieri. A dire il vero il suo volto non mi è del tutto nuovo.
“Bene”, risponde Fabio e poi rivolto a noi, “vi presento il signor Roberti, un amico di mio padre.”
Gli stringo la mano convinto che io e lui ci siamo già incontrati, ma proprio non mi viene in mente dove.
“Tutto a posto?”, chiede il signor Roberti a Fabio e mi pare che con la testa faccia un cenno nella mia direzione.
Ho l'impressione che quella domanda riguardi in qualche modo me.
“Tutto a posto”, risponde Fabio.
“Alla grande”, dice Luca.
Mi sento in dovere di dire qualcosa pure io:
“Tutto ok, grazie.”
Il signor Roberti saluta e se ne va lasciandomi con quella strana impressione di averlo già visto prima. Lo seguo con gli occhi mentre si avvicina al bancone. Il bar non è molto affollato. Ci sono un paio di ragazze sedute al banco, il signor Roberti e pochi altri. Sto per distogliere lo sguardo quando noto l'uomo da cui è andato il signor Roberti. Ricorda vagamente una tartaruga. Per un attimo non capisco chi sia, poi riconosco il mio dentista. Accanto a lui c'è una ragazza cicciottella, l'assistente. Il dentista incrocia il mio sguardo e mi fa un rapido cenno di saluto. Rispondo distrattamente con la mano sentendomi per un qualche motivo molto inquieto.
Fabio e Luca mi stanno fissando in modo strano, come se stessero studiando le mie reazioni. Quando si accorgono che li sto guardando pure io, tornano a sorridere in modo quasi normale.
Mi gira la testa e ho la nausea:
“Ragazzi, vado un attimo in bagno”, dico alzandomi.
Raggiungo il bagno quasi correndo. Prima di entrare e chiudermi dietro la porta, mi volto verso il bancone. Sono tutti voltati verso di me, compreso il gruppetto di ragazze. Guardo il dentista e per una manciata di secondi la mia fervida immaginazione me lo figura con una motosega in mano.
Devo dormire di più. Ho bisogno di riposo, penso entrando in bagno.
Vado davanti a uno specchio, apro il rubinetto e guardo l'acqua che esce, fresca e limpida. La gola mi brucia e ho una voglia pazzesca di bere. Mi attacco al getto d'acqua come se non ci fosse un domani e prendo grosse sorsate. Il sapore dell'acqua è esattamente come mi aspettavo guardandola scorrere: fresca e pura.
Sorrido e mi alzo per guardarmi allo specchio. Non sono così malmesso. Poi mi osservo meglio. E' poco visibile, ma sulla tempia ho qualcosa...una cicatrice. No, non è una cicatrice, è come se avessi tenuto un elastico stretto intorno alla testa e mi fosse rimasto il segno. La linea che parte dalla tempia mi circumnaviga la testa.
Che diavolo...
La porta del bagno si apre e dallo specchio vedo entrare il dentista.
“Tutto bene?”, mi fa.
Mi volto.
“Sì, io...”
“Mi sono dimenticato di darle queste”, e mi porge un flaconcino pieno di pillole.
Ne tira fuori una e me la mette nella mano destra, mentre mi infila il flaconcino nella sinistra.
“Sono antinfiammatori...per il dente...una al giorno dopo colazione. Ne prenda una ora.”
Come ipnotizzato faccio quello che mi dice e ingoi la pillola che il dentista mi ha messo in mano senza neppure una sorso d'acqua.
Di nuovo mi gira la testa, ma prima che possa dire o fare qualsiasi cosa il dentista è uscito.
Che mi sta succedendo? Mi volto verso lo specchio. Cosa stavo guardando? Oddio, c'era qualcosa che non andava ma cosa? Mi sembra tutto a posto. Faccio spallucce e esco.
Torno a sedermi al tavolo. Ho una percezione strana. Anche le facce di Luca e Fabio mi sembrano diverse, simili a quelle di rettili. Mi do un'occhiata intorno e mi sembra di vedere facce simili a quelle di serpenti ovunque.
“Tutto bene?”, mi fa Fabio.
Esito. Poi rispondo:
“Credo di sì.”
Prendo in mano la tazza di caffè e lo sorseggio.
Sì, è decisamente troppo amaro.
giovedì 17 maggio 2007
[+/-] |
Malokouzuki |
Intro Prima Parte
· Dai ! non piangere
Ho palula
· Fai piangere anche me, dormi è tutto finito
No è vero, senti? ullano ancora
· Tappiamoci le orecchie… anzi, vuoi che mettiamo la cassetta de la spada nella roccia?
E se si ammazzano?
· Non lo dire, non lo devi dire, capito?
Ma se muorono noi ci prendono quelli del collegio?
· Chi te l’ ha detta questa cosa!
Me ha detto Rocco dell’asilo, anche lui c’è andato pecchè il suo babbo e la sua mamma litigavano sempre
· Noi non ci andiamo nel collegio… se mamma e babbo muoiono ci ammazziamo anche noi
E come?
· Ci mettiamo il cuscino sopra la faccia e con le mani spingiamo forte forte e non respiriamo più
Ah! ... Ora mettiamo la cassetta ?
· Bravo, così mi piaci. Ecco qua “la spada"…
No, mago mellino no, voglio le tattarughe niggia
· Va bene, però prometti che smetti di piangere, ti prego
Ma te non ti vengono mai le lacrime?
· Si, ma le rimando indietro, stringo forte gli occhi… guarda: così, loro tornano dentro e scendono nella gola. A quel punto le ingoio
Come un mago ?
· Si, più o meno
Se smetto di piangere me lo dai il tuo power ranger rosso?
· Uffff… Va bene
Ora ho sonno
· Spengo tutto?
Si, buona notte Malo
· Buonanotte Nano
PRIMA PARTE
Un copione che si ripeteva ogni volta che mamma e babbo si chiudevano in bagno a urlarsi dietro le peggiori parole. Io ci rimettevo sempre un giocattolo però valeva la pena: mio fratello si addormentava subito, e io potevo sfogarmi, con la faccia affondata nel cuscino, per non farmi sentire. Non volevo che mi vedesse piangere … era troppo piccolo e poi ero il suo eroe, non potevo deluderlo. Non che io fossi grandissimo: avevo 7 anni ma, come dicevano tutti, avevo già un aspetto e un cipiglio adulto; soprattutto lo sguardo – pare – colpiva molto “… che bel bambino, ma come sei serio. Ma che sei sempre arrabbiato?”. Forse lo ero, arrabbiato, fin dalla nascita, ma ancora non lo avevo capito.
Mio fratello ha due anni meno di me, si chiama Francesco ma per me è Nano ed io, per lui, sono Malo.
A dire il vero l’idea venne a lui. Aveva circa tre anni, riusciva a balbettare poche essenziali cose: pappa, mamma, cocombo (cocomero), sciagola (fragola), cacca, babba, acca (acqua) e cuclillo (coccodrillo!). Mauro gli sembrava troppo banale e fu così che mi ribattezzò Malokuzuki. I primi tempi la cosa mi faceva incazzare parecchio, ogni volta che mi chiamava con quel nome impossibile - indicandomi con il suo ditino che glielo avrei staccato a morsi - chiunque fosse lì intorno rideva e io credevo ridessero di me. Mi sentivo ridicolo e, per spregio, visto che era una mezza sega iniziai a chiamarlo Nanokuzuki.
Già, era! una mezzasega, ora mi mangia la pappa in capo. Ma questa è un’altra storia, che vedremo più avanti.
Prima dobbiamo fare un passo indietro
L’INIZIO
Quando sono nato (voluto! mia mamma ci tiene a sottolinearlo e non so perché), era un sabato pomeriggio di giugno, la tv trasmetteva la partita dell’Italia contro non ho mai saputo bene quale squadra. L’Italia comunque vinse e mi è andata bene che ai miei genitori del calcio non gli è mai fregato nulla altrimenti, chissà, mi sarei ritrovato un nome tipo Christian (con l’acca). Quando mi affacciai sul mondo mi impressionai molto, non volevo nascere e infatti fu piuttosto dura. La prima persona che vidi fu un’infermiera molto carina e pensai che forse non era così male questo pianeta. La seconda, un uomo barbuto, era un po’ meno attraente ma, come poi mamma mi ha sempre detto, somigliava molto al Che Guevara e, vista la piega che ho preso in seguito, deve essere stato proprio in quel momento che decisi che forse valeva la pena nascere: insomma forse in giro c’era ancora qualche comunista. Mamma dette una spinta portentosa e l’ostetrico “Ernesto”, mi agguantò al volo con le sue manone: una parata mondiale. Poi mi dette il benvenuto con due pacche sul culo…. Erano le 17,45
Anche l’orario della mia nascita è sempre stata una fissa di mamma, tanto che, diversi anni dopo, quando si accorse che sul certificato di nascita rilasciato dal comune c’era scritto 19,45 fece un casino della madonna per farlo correggere. Io, che non capivo perché ci tenesse tanto, gli dicevo “mamma lascia perdere, che vuoi che sia?” ma lei non mollò la presa. Andò all’ufficio comunale del quartiere e fece il diavolo a quattro con l’impiegato che non c’entrava nulla ma che ebbe due pessime idee: primo, le chiese “ne è sicura signora? forse si sbaglia”. al che lei, a denti stretti, “non credo proprio di sbagliarmi… guardi che, per l’appunto, ero lì presente”; secondo, le disse che non sarebbe stato semplice far correggere il certificato: avrebbe dovuto seguire un iter impossibile, a cominciare da un documento notarile fino a domande e controdomande in carta bollata a mezzo mondo.
“Un notaioooo?” disse mamma “ma lei vuole scherzare, di chi è stato l’errore? non certo mio”. L’impiegato si rese conto che la situazione si faceva urticante: “beh, vede signora, sicuramente nel trascrivere l’orario l’impiegato del comune ha sbagliato e invece di un 7 ha messo un 9… un errore umano insomma” . Mamma disse che l’errore era loro e loro dovevano risolverlo, quindi lasciò il numero di telefono e disse all’impiegato di chiamarla "a problema risolto". Lui la chiamò dopo due giorni, lei andò al quartiere e quando tornò a casa aveva una luce di vittoria negli occhi e un sorriso fantastico: sul certificato, nello spazio dell’orario, spiccava in neretto “17,45”. Non so se si accorse che i numeri erano stati scritti sui precedenti (accuratamente sbianchettati), io, comunque non indagai. A volte ci vuol poco a renderla felice...