Appena entrata Lucia capì subito che non sarebbe andata come si aspettava.
Giorgio teneva il cellulare incastrato tra la spalla e l’orecchio sinistro mentre soppesava due giacche per le grucce, con l’aria di chi pensa a cosa mettersi per uscire.
La voce maschile all’altro capo del telefono era così alta e sgraziata che Lucia poteva sentirla dalla porta della camera.
Rimase immobile per almeno un minuto senza che lui, immerso nella dramma della concorrenza asiatica, mostrasse di essersi accorto della sua presenza.
Ma oggi era la loro giornata, e stasera sarebbe stata la loro serata, quindi strinse i denti sforzandosi di rimanere serena ed aspettò.
Finalmente Giorgio, sempre con il cellulare innestato nella clavicola, dette segno di averla vista e gesticolando le chiese un parere sulle giacche.
Lucia storse la bocca, uscì dalla stanza e mentre posava cappotto e borsa nell’ingresso lo sentì chiudere la conversazione e venire verso di lei.
“Ehi ti stavo chiedendo quale è meglio!”
“Francamente mi fanno schifo tutte e due. A meno che tu non stia andando a un aperitivo da Elton John.”
“Ma come, me le ha regalate la Gianna, sono di Pierre Guy-Maranz!”
“Eh in effetti si vede il tocco Maranz. Senti ma si può sapere dove vai?”
“Esco coi ragazzi. Piero ha detto se si va a bere qualcosa visto che questa settimana abbiamo saltato calcetto, allora Gigi ha proposto di cenare da lui perché la Mara è a yoga.”
“Ma come, sei a cena fuori? E me lo dici ora?”
“Scusa cocca volevo chiamarti ma ero davvero nei casini… questi cinesi ci mettono nella merda, è un momentaccio… ma torno presto dai.”
“Ma Giorgio oggi, ecco, oggi era una giornata speciale, io…”
“Oddio amore scusa, me ne scordo sempre… buon anniversario amore mio! Bella la mia ragazza…”
Giorgio abbracciò la moglie e colse l’occasione per sbirciare l’orologio dietro le sue spalle.
Certo era stata proprio una cazzata non ricordarsi dell’anniversario: però era tuttora convinto che fosse il mese successivo. Evidentemente si sbagliava, sennò perché Lucia sarebbe stata così alterata?
Lei su queste cose non sbagliava. Lucia in generale sbagliava molto poco.
Le dette una pacca sul sedere, acchiappò al volo la Guy-Maranz fucsia, fece l’occhiolino e se andò ammiccando un a dopo.
Lucia vide la porta chiudersi lentamente e andò alla finestra di cucina: fuori stava iniziando a piovere.
Volevo dirti che da oggi sono la nuova responsabile della Divisione Retail.
Sì, grazie amore, grazie, lo so che me lo meritavo.
E che a quanto pare sono anche incinta.
Sorpresa!
Al diavolo, pensò, per una sigaretta non morirò mica.
Prese l’accendino e mentre guardava la fiamma pensò che non era certa di avere così tanta voglia di un figlio.
giovedì 28 dicembre 2006
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Aiutami Cap. 2 - Cinque anni fa (segue) |
domenica 17 dicembre 2006
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IV - Ahmed |
Aspettai qualche secondo, poi uscii anch'io dal negozio. Sentivo come un gorgo nel petto, un senso di nausea. La testa girava nel gorgo.
L'uomo e la ragazza riemersero in Piazza dell'Unità. Le falde svolazzanti del cappotto dell'uomo erano onde ipnotiche. Appena fui anch'io sulla strada, lo sguardo di Ahmed mi catturò. Era con un gruppo di suoi connazionali, facce come manifesti slavati dalla pioggia. Ricordavo vagamente di averle già viste alla scuola. Spalle incollate al muro, mani addormentate nelle tasche. Erano l'ombra di quelli che aspettavano l'autobus alla fermata di fronte. Ahmed mi raggiunse con un salto.
"Ehi amico! Porcaccia ma dove sei stato in questi giorni? Non sai niente di ieri? Come non sai niente! O alla fine sono venuti davvero, quei bastardi. Mica era solo chiacchiera! Sono venuti davvero ieri mattina, a cacciarci!"
Ahmed non smetteva mai di guardarsi attorno, anche quando parlava. Il suo sguardo era un cono di luce che illumina la scena con flash rapidi, stroboscopici. Un autobus che si ferma, le porte che si aprono. La gente risucchiata dentro, bevuta in un sorso. Un ragazzo di colore su una carrozzella, doppio mento, occhi pensosi, che cerca di attirare l'attenzione dell'autista. La sua mano che sfarfalla in direzione dello specchietto retrovisore. Ahmed si accorgeva di tutto, senza mai perdere il filo del discorso.
"Uno del movimento è volato ad avvertirci mezz'ora prima, per fortuna. Come diavolo fanno a sapere sempre tutto. Siamo scesi in strada in mutande come eravamo. Li dovevi vedere, i cancelli barricati con tutta l'immondizia della settimana! Immaginati. Quelli però sono furbi, che ti credi? Son passati da dietro, dal campo, quelli della municipale con alcuni operai del comune. Hanno sfondato la porta a calci e hanno cominciato a murare porte e finestre e a mettere i sigilli. Se la ridevano, i bastardi!"
Ormai avevo perso di vista Camilla e l'uomo che l'accompagnava. Sentivo la nausea salirmi a ondate. Seguivo lo sguardo di Ahmed sulle porte dell'autobus che si chiudevano, inghiottendo le voci dei passeggeri. Gridavano all'autista di fermarsi. Le porte si riaprirono e dalla base dell'autobus fuoriuscì la pedana, come una lingua metallica. La sua punta sfiorò il bordo del marciapiede. Il ragazzo in carrozzella la guardò ritrarsi come schifata. Dai vani delle porte e dai finestrini luccicava un alveare di occhi attenti. Ahmed continuava il suo racconto.
"Mica siamo rimasti a guardare! Ci siamo piazzati tra i chiodi e i martelli, le donne si sono attorcigliate alle loro gambe e frignavano che era una bellezza. Se ne sono andati, sempre dal retro, con il fango e la merda e tutto. Ben gli sta. Ma non era mica finita!"
Le porte si richiusero, l'autobus andò avanti di qualche metro, poi si fermò sbuffando e tornò indietro riaccostandosi al marciapiede, poco più vicino al bordo. Le porte centrali si riaprirono, mostrando occhi più sottili, sorrisi fatti inespressivi, come tagli nella carne dissanguata.
"Dall'altra parte la strada era già zeppa di poliziotti con caschi e manganelli " raccontava Ahmed, "e c'era pure un tipo con la fascia tricolore e il megafono, che non la smetteva più di minacciarci: dovevamo sgomberare immediatamente, secondo lui! Come se non ne avessimo mai viste, di commedie del genere."
Come api infastidite, nell'autobus si vedevano teste muoversi scattose dall'orologio sul polso a un altro autobus poco più avanti, pronto a partire. Ronzavano dalla pedana, che di nuovo si protendeva, al ragazzo in carrozzella, e dal suo sguardo basso ai loro stessi sguardi impazienti. Ahmed scuoteva la testa mentre fotografava la scena con le sue occhiate rapide, e modulava la fiamma vivace del suo racconto con un improvviso cambio di tono ogni volta che rivolgeva il viso verso di me.
"Continuiamo a buttare roba dietro ai cancelli e alle altre entrate. Un vero schifo, ma che facevi? Nel giro di un'ora arrivano a centinaia quei ragazzi con megafoni e striscioni e telecamere. Ci portano anche da mangiare, sono fantastici."
Ahmed fece un gran sospiro in direzione del ragazzo in carrozzella.
"Idiota di un autista. Per farla uscire deve tenere le porte chiuse" disse. La pedana fece un altro inutile tentativo di posizionarsi, mentre Ahmed si tuffava dentro l'autobus. Saltò fuori con un gran sorriso. Poco dopo il ragazzo scivolava sulla pedana troppo ripida, sospinto da Ahmed.
"Ti rendi conto?" mi chiese un secondo dopo, "ha chiesto scusa! Il ragazzo! Scusate, ha detto. Che roba. Insomma, ti dicevo. Noi sempre lì a tener duro. I pulotti abbozzano una carica, ma più per far scena. Ridicoli, davvero. Porcaccia ma dove diavolo eri tu? Verso le cinque gli sbirri se ne vanno in blocco, si erano stancati, o che ne so, dovevano tornare dalla mogliettina. Uno dei rappresentanti del movimento ci ha detto che possiamo stare tranquilli, per un po', soltanto dobbiamo fare attenzione con la roba e tutto, che per quei bastardi ogni scusa è buona."
venerdì 15 dicembre 2006
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La Dolce Vita |
Adoro queste serate. Cena tra donne. Gli uomini e i problemi li lasciamo a casa. A volte ci penso, e sono proprio orgogliosa che dopo tanti anni continuiamo ancora a vederci. Almeno una volta alla settimana, tutte insieme.
Stasera in realtà c’è una donna in più del solito, o meglio, una donnina: Rosi. Marzia non se l’è sentita di lasciarla a casa con Lucio, e noi concordiamo. Non che non sia un buon padre… anzi… è solo che non mi stupirei se lo fosse anche per un altro paio di bambini! Marzia le sta facendo vedere la vasca dove tengono i granchi e le aragoste. Ma non mi sembra che se ne renda molto conto… le sue funzioni visive sono ancora primitive come quelle di una talpa…
Il ristorante è molto carino. Vicino a Piazza Santo Spirito. Ci hanno dato un tavolo rotondo… mi piace un sacco. Ci possiamo vedere tutte in faccia. E come al solito molti uomini del ristorante vorrebbero essere al centro, almeno a giudicare dalle loro facce allupate. Poveri sfigati.
In queste occasioni non c’è molto spazio per il genere maschile… l’unica è Cindy, che tre volte su quattro conclude la serata con un ragazzo diverso, che poi non rivedrà… noi altre ormai siamo un po’ invecchiate per cose simili… lei ogni tanto onora ancora la camporella, in ricordo dei tempi in cui viveva con i suoi e usciva con ragazzini che erano nelle medesime condizioni… io invece da quando ho oltrepassato la soglia dei venticinque anni mi sono data una calmata. Figurarsi ora che ne ho ventotto.
Ma insomma una volta alla settimana gli uomini possono anche sparire… anzi, i rispettivi fidanzati è meglio che non sentano, viste le infamate che piovono su di loro come temporali estivi. Stasera il primo della lista è, ovviamente, Lucio. Cerco di limitarmi perché Marzia è un po’ suscettibile sotto questo punto di vista… credo sia un modo per difendersi: sa benissimo che Lucio non ci piace un granché, e quando fa qualche sbaglio noi partiamo subito in quarta con una nuova crociata. Lei può permettersi di arrabbiarsi con lui, ma se siamo noi a criticarlo finisce per difenderlo. Solo ieri sera è stato diverso, perché il nostro giudizio non le dava particolare noia… non aveva grande importanza rispetto a quello, ben più preoccupante, dei genitori. Dai primi discorsi mi sembra che stasera sia di nuovo sulla difensiva. Soprattutto da quando è nata Rosi mi rendo conto che Marzia fa di tutto per tenere unita la famiglia. Anche tapparsi gli occhi con dei prosciutti. E in un certo senso la capisco. Mi dà solo noia che non ci permetta di infamarlo come si deve: in fondo siamo noi le sue amiche fedeli… lui non è né un suo amico, né tanto meno le è fedele…
“Ma quella sedia in più l’hanno messa per Rosi? Gli va detto di toglierla…” suggerisce Miriam.
Un coro di assenso si anima subito. Sì… certo… dà solo fastidio…
“Ehm… ragazze… devo dirvi una cosa…”
Cindy. Che cavolo avrà combinato…
“Ho invitato Patty… le ho detto che stasera festeggiavamo il mio compleanno, mi è sembrato che ci rimanesse male e allora ho fatto finta di averglielo detto per invitarla…”. Silenzio generale.
Ma è il mio compleanno…
Appunto, volevamo stare noi, da sole con te….
Già c’è Rosi di troppo… Dai, Marzietta, si scherza. (com’è permalosa…).
Insomma, il clima è un po’ cambiato. Miriam chiama il cameriere: che porti subito tre bottiglie di Clemente VII, sarà meglio. Le stappa davanti a noi, annusa il tappo. Chi lo assaggia? Ci pensa Cindy ovviamente. E ovviamente è buono. Stasera almeno il vino è, come al solito, una certezza. Ha un gusto deciso, corposo. Lo sento che mi rimane sul palato.
Ed eccola. Patty. Arriva tutta in tiro, lunga come una giraffa, con i capelli legati in un coda, tutti brillantinosi. Che cavalla.
“Ehilà, rrragazze” con quel fottuto accento straniero che ancora le è rimasto dopo anni che vive in Italia. Fottuto. Mi devo togliere dalla testa questa parola. La sentirò tutta la sera. In un’altra lingua, sì, ma la sentirò tutta la sera…
“Ooh… questo è proprrrrio un fucking special ristorrrante…”. Detto fatto…
Il cameriere la sente e la guarda un po’ storto. In realtà voleva essere un complimento: più o meno significa fottutamente speciale. Ci fa sempre vergognare.
Continua ancora, ormai è l’unica che parla, e come sempre calca ogni singola parola. Accento british misto a slang londinese.
“Oh Cindy, sono così così contenta di essere al tuo compleanno… e di rivedere voi, rrragazze… ooooh… ma chi è questa baby?? Oh, little… you are so sweet. Sweeeeety…” e le manda i baci. Se dice “fucking special baby” mi alzo e me ne vado.
Ok, ordiniamo. Anche se il ristorante è rinomato per il pesce, optiamo per un secondo di carne. Siamo tutte più o meno a dieta, e visto che alle calorie del vino non si rinuncia evitiamo i crostini misti. Filetto con i funghi porcini, patate arrosto e insalata. Beh, come dieta in fondo non è male! Ci sarà un po’ da aspettare. Continuo a bere. Sento che ho le labbra nere. Appiccicose. Mi succede sempre col vino. Ora vado a fumarmi una sigaretta e poi andrò in bagno.
“Vieni con me?”
Simona si mette il cappotto e mi segue.
Fuori non fa troppo freddo. Si sta ancora bene. Fumiamo. Abbiamo così tante cose da raccontarci e così poco tempo che non sappiamo da che parte cominciare. Mi chiede di Michele. Bene, perché? Mi vede strana. Non mi vede felice. Infatti non lo sono. Spesso non sono neanche contenta… come potrei parlare di felicità? Sì, forse mancano un po’ di stimoli. Ma te? Tutto bene con Niccolò? Sì. Oh, lei sì che è contenta. Anche felice, a volte. Che invidia. Anche il lavoro le va bene. Dopo tanti anni di studio è arrivata dove voleva. Sono orgogliosissima di lei. Mi chiede di Mauro, si è ricordata… sì mi ha scritto, ci vediamo domattina. Sono emozionata. Le farò sapere com’è andata.
Spengo la sigaretta schiacciandola col tacco dello stivale contro l’asfalto umido. Rientriamo. Al nostro tavolo ormai la situazione è degenerata. Patty sta facendo il suo show. Si sta ubriacando, e parla a voce altissima. Dio, ti prego, fa che non salga sul tavolo per ballare…
Non vado in bagno, mi tengo le labbra nere. Tanto con tutto questo casino di sicuro non se ne accorge nessuno. La guardano tutti. È come un’attrazione da circo. Patty ha qualche anno in più di noi, prima faceva la modella. Da un po’ di tempo hanno smesso di chiamarla… ormai è fuori età… così ha cominciato a fare la personal shopper. E così ha conosciuto Cindy. Ma che bella coincidenza.
Arriva la carne. Buonissima. Morbida che sembra burro. L’odore di brace ci aveva già preparate… che fame… chiediamo altro vino, il cameriere sorride e fa lo splendido… chi guida di voi stasera, ragazze?
Mangiamo avide come bestiole affamate… che buone anche le patate… io le adoro…
Spolveriamo tutto nel giro di dieci minuti. Buono ma un po’ in stile novelle cuisine, questo ristorante.
Finalmente… si spengono le luci. Si materializza una lucina tremolante, che proviene dalla cucina con un andamento incerto. Parte il coro: tanti auguuuri aaaa teeeeee… tanti auguuuuuuurii aaaaa teeeeeee… ecc. ecc.
La cameriera appoggia la torta sul tavolo… Cindy chiude gli occhi, starà esprimendo il suo desiderio, li riapre e soffia… la candelina si spenge e della fiamma non rimane che un filino di fumo che sale su partendo dallo stoppino. Riaccendono le luci e ci servono anche lo spumante, brindiamo. Cindy è contenta. Festeggia i suoi ventisette anni con noi.
Ma dov’è Patty? Le luci si rispengono e lei non è al tavolo. Oddio.
Nel buio, una sagoma che purtroppo riconosco subito compare dalla porta della cucina… noto che si è tolta la giacchina… che bel vestitino “seconda pelle”… ancheggia sinuosa mentre si avvicina lenta al nostro tavolo, e inizia a cantare così, davanti a tutti, con voce suadente: happy birthday to you… happy birthday to you… (oddio, non starà mica facendo l’imitazione a…) happy birthday Mr. President… happy birthday to you…” sì, purtroppo sì… ovviamente… Marylin. Dimmi te se Cindy sembra JFK.
Cindy ride, divertita. Io mi metterei le mani nei capelli, ma fa sorridere anche me. Che personaggio. Gli uomini del ristorante la guardano imbambolati. Sì, ve la consiglierei. Dopo mezz’ora la battereste per terra. Le altre donne sono piuttosto infastidite… noi ormai ci siamo abituate (ma ogni volta riesce a stupirci). Qualcuno malauguratamente urla “Biiiis!”, e altri nel ristorante lo imitano. La gioia le si legge negli occhi… anche se per un attimo sembra quasi preoccupata: da brava entertainer sa che non è il caso di riproporre l’happy birthday. Certo non può deludere il suo pubblico e mandarlo a letto insoddisfatto. Per fortuna Marylin offre molte risorse. Si schiarisce la voce un attimo…“The French are glad to die… for love! A kiss on the hand may be quite continental… But diamonds are a girl's best friend... men grow cold as girls grow old, and we all lose our charms in the end… but diamonds, diamonds, diamonds are a girl's best friend!”. Ammiccante come Marylin e scatenata come Nicole Kidman in Moulin Rouge… passa tra i tavoli, strizza l’occhio un tipo, manda un bacio con la mano a un altro…
È il delirio. Tutto il ristorante applaude. Per tutto intendo gli uomini. Lei fa un mezzo inchino. Ho quasi paura che il proprietario ci butterà fuori: ha fatto proprio un gran casino… Mi sembra anche che abbia già puntato un ragazzo, che infatti non è per niente brutto… beh, per attirare la sua attenzione non avrebbe potuto far di meglio… ecco, forse avrebbe potuto concludere immergendosi fino alla vita nella vasca dei crostacei e rivolgendosi a lui con un inflazionato ma sempre efficace “Ehi Marrcello… come heeere!”.
Se glielo suggerissi penso che lo farebbe. Più che altro mi preoccuperebbe il dopo… lui potrebbe essere così cretino da entrare nella vasca con lei e la scena sarebbe quantomeno raccapricciante.
Guardo Rosi… con tutto quel casino Marzia non è ancora riuscita ad addormentarla… si è sovreccitata… si guarda intorno senza capire… per fortuna ride… se fossi Marzia rimpiangerei di non averla lasciata con Lucio…
“La posso prendere?” le chiedo.
Marzia me la passa, Rosi mi guarda, sembra che non sappia che espressione fare. Mi butta le braccina intorno al collo e si appoggia con la testa sulla mia spalla. È stanca morta. Mi mette una manina nei capelli, è abituata a toccare quelli della mamma che sono simili ai miei. Lunghi e sottili. Me li arriccia un po’. Mi piace sentire il contatto con i neonati. Da ragazzina ho fatto la babysitter a una bimba piccola, si chiamava Marta. Mi piaceva tanto farla addormentare. Si metteva proprio in questa posizione e spesso quando tentavo di metterla nel lettino si svegliava. Così finivo per tenermela addosso... In quella posizione non potevo far niente, mi muovevo appena per non svegliarla. Ma stavo bene. Il calore dei neonati è qualcosa di rassicurante. Tu rassicuri loro e intanto loro rassicurano te.
Di colpo uno svarione mi rimbomba in testa. Sono un po’ alticcia. Anche lo spumante non aiuta. Intanto Miriam tira fuori dalla borsa un pacchettino: è il nostro regalo per Cindy. La confezione di Tiffany non lascia spazio a dubbi. Cindy prende il bigliettino, lo legge e ci ringrazia. Scarta il pacchetto: è il braccialetto di Tiffany, col ciondolo a forma di cuore, piatto, con sopra inciso: Please return to Tiffany & Co. Ormai lo abbiamo comprato quasi tutte, manca solo a Simona. E certo non poteva mancare a Cindy. Ne è felicissima, penso che in un certo senso se lo aspettava.
Decidiamo di andare in qualche pub, o in discoteca. Ci portano il conto, paghiamo e usciamo da lì. Rialzandomi sento proprio gli effetti dell’alcool. Sicuramente inciamperò con questi stivali, ma non si può sempre uscire con le scarpe basse…
Marzia ci saluta… è un po’ tardi per Rosi… la prende e la mette nel passeggino… sta dormicolando… così rimaniamo noi cinque. Patty non ha parlato con il Marcello della situazione. Strano. Ma subito capisco perché: sta raccontando a Cindy che sa dove lavora, lo aveva visto qualche giorno prima alla Banca Toscana. È un banchiere, o qualcosa di simile, quindi lo ribeccherà con calma.
Discutiamo un po’ per la scelta del posto, e alla fine optiamo per il Dolce Vita, è lì vicino… Dolce Vita… rivedo l’immagine della Ekberg nella fontana…
Saltellando sulla strada acciottolata come se camminassimo sulle uova arriviamo al pub. Spesso ci becchiamo qualche calciatore. Cindy ne va pazza. A me non è che ispirino molto, anzi. Mi chiedo di cosa ci potrei parlare. Sono dei bei ragazzi, in genere, ma a me sono sempre piaciuti i brutti…
Prendiamo da bere al bancone. Ordino un vodka lemon. Qualcosa di più forte in questo momento mi farebbe stramazzare. Ci sediamo fuori, all’unico tavolino rimasto libero. Il discorso cade su Marzia. Siamo tutte un po’ dispiaciute per la sua situazione. Non ci sembra contenta. La nostra teoria è che lui l’abbia in qualche modo incastrata. Come succedeva con le ragazze che incastravano gli ufficiali ritrovandosi all’improvviso in dolce attesa, solo che qui i ruoli si sono invertiti. Non abbiamo certezze per dirlo, ma nessuna di noi pensa che Marzia volesse farci un figlio, con Lucio. Comunque lei non è stata furba. Le precauzioni andrebbero usate.
Si avvicinano due ragazzi. Cindy e Patty iniziano subito a chiacchierarci. Hanno al collo la sciarpa della Fiorentina. Che squallore… di sicuro hanno l’abbonamento in curva Fiesole. Anche Miriam si mette a chiacchierare con loro. Io e Simona ci rifiutiamo per principio, e ne approfittiamo per parlare un po’ tra noi. Subito i due tipi ci danno delle asociali. “Perché? Tre non vi bastano?” gli rispondo senza esitare. Mi guardano un po’ male. Beh chi se ne frega. Non è per fare la snob ma ci sono persone che si riescono ad inquadrare subito, e non mi va di perdere tempo parlando di cazzate. Oltre che stupidi non sembrano neppure simpatici.
Mentre Simona mi parla di quanto Marzia sia ansiosa con Rosi, da lontano riconosco il presunto banchiere. Sì, non è brutto per nulla. “Non fa che chiamarmi per chiedermi se può dormire dopo mangiato, o se è meglio aspettare un po’…”. Ma non ho certo voglia di fare la concorrenza a Patty. E in generale non mi va di andare a cercare nessuno, in questo momento. Anche se non mi sentirei in colpa con Michele. “Cerco di rassicurarla ma continua a chiamarmi per ogni sciocchezza… è molto ansiosa, davvero mi preoccupa…”. Prima era diverso. Mi sentivo tremendamente male quando facevo le corna a un mio fidanzato. Poi crescendo ho iniziato a dare meno peso a queste cose, a essere meno sincera, a fare un po’ di doppi giochi. “Mi chiama anche quando sono in ambulatorio e mi fa un pippone d’un’ora… a volte non so come fare…”. Ma in questo periodo sono così apatica che mi sembra di non averne neppure la forza. O forse non ho incontrato nessuno di interessante. Interrompo il flusso di Simona e gli chiedo cosa ne pensa. Mi dice che secondo lei… siamo alle solite… insomma, è convinta che con Michele non durerà. È sempre sincera con me. In fondo lo penso anch’io. Un po’ mi dispiace dirlo così. Ma anche se cerco di non ammetterlo lo so benissimo. Forse dovrei prendermi un periodo per rimanere single. Finora non ci sono mai riuscita, è sempre arrivato qualcuno proprio quando non volevo che arrivasse. Un tempismo che a volte mi manda in bestia. Vittima di me stessa o degli eventi? A volte mi chiedo se potrei vivere da sola… senza un uomo accanto… e non so ancora rispondermi. Forse sì. Ma forse anche no.
Questo vodka lemon è proprio buono. Succhio dalla cannuccia, la giro facendo ruotare il sbattere il ghiaccio contro il vetro. Il bicchiere è gelido, mi si è congelata tutta la mano destra. Lo appoggio sul tavolino e metto la mano in tasca. Una ragazzona, in piedi dietro a me, non fa che urtarmi con la borsa. Se continua le dico qualcosa. In questo posto ci sono troppe persone in così poco spazio. Dà l’impressione di venir schiacciati dalla gente e dalla confusione. Ma a Firenze è così ovunque.
Ora sono proprio andata. Sento che la vista mi si intreccia. Che mal di testa. Quando sono stanca non dovrei esagerare con l’alcool, e invece non so darmi un limite. Anche stasera ho fumato un sacco. Se mi annuso i vestiti sembra di essere all’inceneritore. Spero che non ne avrò mai bisogno, ma se Simona invece della pediatra avesse fatto la pneumologa sarei stata più tranquilla.
Anche Patty ha visto il banchiere. Lo punta come un felino osserva la sua preda. Intanto i due tifosi sono diventati sette. Si è aggiunto il resto della tifoseria. Uno peggio dell’altro. Sembrano usciti dal mercatino della vergogna. Uno dei nuovi arrivati mi chiede se ho una sigaretta. Pure. Gliela do, povero disgraziato… in fondo la natura non è stata blanda con lui, e in questi casi la beneficenza è un obbligo morale.
Simona mi chiede come va con l’organizzazione del meeting. Abbastanza bene, anche se lunedì sarà comunque un gran casino. Arrivano tutti i Francesi. Perlomeno c’è Yves, il commerciale, che è proprio un tipo interessante.
Cindy interrompe le nostre chiacchiere:
“Andiamo a ballare?”
Guardo l’ora. Non so che fare. No, domattina devo incontrare Mauro e non posso arrivare distrutta. Già che lo sarò comunque, ma se dormo un po’ forse è meglio. Sono quasi le tre. Lo dico a Cindy. Ci resta male, ma mi capisce. Anche a Simona non fa piacere… stasera con la presenza di Patty le altre sembrano delle mangiatrici di uomini, e lei non ha proprio voglia di mettersi in qualche casino ora che con Niccolò va tutto molto bene. Per essere una serata tra donne si è rivelata un po’ atipica.
Scusami cara. Non ti preoccupare, cercherò di sopravvivere… vieni a pranzo dai miei domenica? Mi hanno chiesto se vieni anche te… Oh, sì, è tanto che non li vedo.
Ci alziamo da lì, loro per andare in discoteca e io per andare a letto. Do un bacio a tutte.
Bacio anche Patty. Si accorge solo ora che non vado con loro:
“Oh, darling, non vieni? Oh, what a fuck…”
“Scusa Patty, tanto ci rifaremo…”. Speriamo di no.
Vado verso la macchina. Penso a Michele. Forse non sarà ancora tornato a casa. Ripenso ancora alla stessa storia. Di beccarlo con un’altra. Forse è quello che vorrei… Per poterlo lasciare senza sensi di colpa. Per avere un motivo più che valido per farlo. Perché per una volta la colpa di aver rovinato una storia non fosse solo mia.
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A proposito del Natale |
Sicuramente voi avete buonissime ragioni per amare il Natale, non voglio certo mettere in dubbio la vostra sincerità. Però fate il piacere, mettetevi un poco nei miei panni, giusto per curiosità. Anzi, supponete per un attimo che stiate dormendo e che –vostro malgrado– sognate di essere qualcun altro il quale –guardacaso– son proprio io, uno che adesso odia il Natale.
Bene, in questo sogno –o incubo, decidete voi– siete appena tornati a casa, come del resto fate ogni anno nel periodo natalizio. Vostra madre vi ha aperto e voi la baciate senza nemmeno guardarla, mentre curvi sotto lo zaino da trekking vi trascinate fino al soggiorno, desiderosi di buttarvi sul divano –scucito e smollato quanto si vuole ma pur sempre un gran divano– e già sbuffate per la raffica delle solite inutili domande che vi aspetta.
Appena entrate la prima sorpresa: del divano nemmeno l'ombra. Cosa ancora più strana, nell'angolo non spicca l'alberello sintetico che ogni anno vostro padre tira fuori dal sottotetto, spolvera con qualche schiaffo e dopo innumerevoli tentativi piazza in equilibrio precario accanto al televisore. Volete togliervi lo zaino e mentre lottate per liberarvi da quella matassa di lacci, cinghie e cerniere sentite scricchiolare le vostre articolazioni. O perlomeno così vi è parso. Vi inquietate, dato che avete posato lo zaino per terra, vi siete seduti a tavola, immobili e con l'orecchio teso, ma lo scricchiolìo continua. Finalmente vostra madre appare sulla soglia, siete ansiosi di domandarle perché tutti quei cambiamenti e, soprattutto, cosa diavolo è quel rumore.
Avete buttato giù una sufficiente quantità d'aria per formulare d'un fiato entrambe le domande, avete anche aperto la bocca, aggrottato le ciglia, quando ecco che vi bloccate in un'istantanea. Quella che vi sorride dolcemente non è vostra madre –questo è chiaro– anche se tutto –a parte la vostra inequivocabile percezione– dovrebbe farvi supporre che lo sia. Càpita nei sogni no? Niente di strano, se questo fosse un sogno e non quel che è successo a me.
Mia madre –o chiunque sia quella donna– si siede, sorride stupita per il mio sconcerto, stai bene tesoro? mi chiede. Tesoro? Mia madre non mi ha mai chiamato tesoro. Né figliolo né caro né altre smancerie. Il modo in cui mia madre mi ha sempre chiamato odorava d'alcol dozzinale, come i suoi capelli, e ricordo un solo vago sorriso tra gli zigomi illividiti. Il volto di questa donna invece è luminoso e ben curato e sullo smalto dei suoi denti non si è cristallizzato il fumo di decenni.
Dov'è papà? le chiedo. Tuo padre è a lavoro, quest'anno deve lavorare anche oggi che è la vigilia, ma ci sarà sicuramente per cena, non temere, mi rassicura. Ma quale lavoro? le chiedo, con la mandibola penzoloni. Come quale lavoro, piccolomio! Ma lo stesso di sempre, mi dice, scuotendo leggermente la testa per sottolineare l'evidenza della sua affermazione.
Dov'è la tragedia, vi starete chiedendo: adesso ho una madre sana e bella, un padre che lavora eccetera. E tra qualche ora ci sarà una cena con ogni bendiddio e scommettete che riceverò dei bellissimi regali.
Se l'avete pensato, voglio sperare che stiate scherzando. Quella donna non è mia madre. Buon Natale figliolo, mi dice alzandosi e allargando le braccia. Mi abbraccia e mi bacia sulla fronte e sento lo scricchiolìo di prima amplificato, come se, dentro di me, un cane rabbioso si stesse cibando delle mie proprie ossa.
martedì 12 dicembre 2006
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III - Imprevisti |
"No, allora non ci siamo capiti. Io voglio il posto singolo sull’Eurostar. Sa quello che c’è all’inizio del vagone senza nessuno accanto? Di fronte lo schienale del posto davanti, accanto lo spazio per le valigie!"
“Biondo! E’ lei che non mi ha capito… non posso prenotarle un posto specifico sull’Eurostar…il computer mi dà il posto migliore disponibile e io quello le assegno. Non posso annullare l’operazione e ritentare fino a che non mi viene proposto quello che lei desidera.. E credo che nemmeno le persone in fila dietro di lei ne sarebbero contente.”
Cristiano la odiò. Primo: come ti permetti di chiamarmi BIONDO, io che sono moro e rasato. Secondo: sei una bigliettaia delle ferrovie, cazzo, fai il tuo fottuto lavoro e offri un servizio come Dio comanda ai clienti. Terzo: appena arrivo a casa scrivo un email a Trenitalia e ti faccio licenziare…come cazzo ti chiami, fammi leggere la targhetta…M.Iacobellis.
“Allora” - riprese la Iacobellis - “lo vuole o no questo biglietto?”
Cristiano inghiottì tutte gli improperi che gli passavano per la testa e disse, ormai più per impuntarsi che per altro:
“Sì, lo voglio” - si sentì come uno sposo all’altare e aggiunse: “ma con la prenotazione per il posto che le ho richiesto.”
“Ok” - tagliò corto M. Iacobellis “ arrivederci. Il prossimo?”
Il vecchio dietro Cristiano lo spintonò di lato intrufolandosi tra lui e l’amabile bigliettaia.
“Un biglietto per Chianciano Terme”
Eh no eh, ma chi cazzo crede di essere? Ora la sistemo io questa! E 'sto vecchio che crede di fare?
“Scusi, sa” - disse Cristiano. La voce gli uscì incerta e non gli suonò affatto come intendeva farla suonare. Inghiottì e spintonando il vecchio a sinistra disse: “non ho mica finito, sa..”
Il vecchio si tolse gli occhiali che aveva inforcato e bofonchiò: “questi giovani di oggi…tutti maleducati”.
“Oh sì che ha finito” si intromise M. Iacobellis.
“Io dico di no e ora lei mi chiama il direttore e vediamo di sistemare la questione” - questa sì che gli era uscita bene, pensò Cristiano, ora la bigliettaia si sarebbe scusata e l’avrebbe servito come lui voleva.
Lei sorrise perfida e si protese verso di lui sfidandolo:
“Signorino, ARIA!”
Non ci credo…cazzo ma sempre a me succedono??? Dopo un finesettimana passato con mia madre, mi mancava giusto la bigliettaia stronza.
“Avanti” - gridò qualcuno dalla fila - “ abbiamo un treno da prendere”
“Vuol dire che lo perderete, visto che la signora non fa il suo lavoro” - gridò Cristiano di rimando.
La Iacobellis alzò la cornetta che le stava accanto e parlò nel microfono. Cristiano non sentì una parola ma capì dalle espressioni che c’erano dei guai in arrivo. Se ne fosse andato ora avrebbe evitato tante grane. Ma le grane arrivarono prima di quanto Cristiano si aspettasse.
“E’ lui” - disse la Iacobellis indicando Cristiano al tipo della sicurezza.
“Signore, se vuole essere così gentile da seguirmi.”
“Guardi”- tentò di ribattere Cristiano - “mi faccia spiegare…”
“Il giovanotto mi ha spintonato e mi è passato davanti” - lo interruppe il vecchio.
Cristiano aprì bocca per replicare ma prima che potesse parlare l’uomo della sicurezza lo aveva già afferrato per l’avambraccio con le sue manone e lo tirava con sé.
Cristiano si voltò un attimo giusto per vedere M. Iacobellis che sorrideva trionfante. Che poi, si disse, M puntato per cosa starà? Di certo una così non può che chiamarsi Milena…
Non terminò il pensiero che il cellulare prese a squillare. Lo tirò fuori e vide la parola MAMMA che lampeggiava sul display.
Cazzo!
“Risponda pure, se vuole”, gli disse l'agente, “ma venga con me per cortesia...”
Cristiano pensò che sarebbe stato meglio non rispondere, ma il cellullare non smetteva di squillare.
“Mamma...”
“Cristiano...”
“Mamma, ci sentiamo dopo, non è un buon momento...”
“Puoi dirlo forte, Santiddio... tua nonna è morta...”
giovedì 7 dicembre 2006
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Aiutami Cap. 2 - Cinque anni fa |
“Me lo sentivo che oggi sarebbe passata di qui quella befana.”
“E che cavolo: è venuta la settimana scorsa, chi se lo aspettava?”
“Ma io lo so, fa apposta, per prenderci alla sprovvista. Secondo me ci gode pure.”
“Eccoli. Io vado in magazzino a prendere un po’ di shoppers.”
Biondoplatino scoccò un’occhiata furente a Neroblu poi col migliore dei suoi sorrisi accolse i due rompiscatole.
“Dottoressa Pancaldi, buongiorno. Claudio buongiorno.”
“La vetrina è sporca, da quanto è che non la pulisci?”
“Ma come dottoressa, l’ho pulita ieri sera, non mi pare…”
“E questo laniccio dietro il bancone? Bisogna starvi dietro tutti i giorni? Claudio sono le 11, chiamami il dottor Russo. E quell’altra dov’è?”
“E’ in magazzino, doveva…”
“Quante volte ve l’ho detto: dovete essere tutte e due qui pronte al pubblico!”
“Ma dottoressa…”
“In magazzino ci andate negli orari di chiusura. Deve essere tutto pronto. Non vi sapete organizzare. Prenderò i miei provvedimenti.”
“Lucia, in linea il dottor Russo.”
“Pronto? Paolo! Carissssssssimo! Sì tutto bene… tutto a posto… e tu che mi dici? Abbiamo buone notizie….? Davvero….??? Beh non ti nascondo che un po’ ci speravo… lo vedi che il lavoro di squadra paga! Allora ci vediamo in Direzione tra un po’… grazie ancora per la bella notizia. Ti bacio. A presto caro. Ciao. Andiamo Claudio, meglio che esca in fretta da questo negozio che già ho l’urto di vomito. Voi due: torno presto, è la vostra ultima occasione.”
“Arrivederci dottoressa Pancaldi. Arrivederci Claudio.”
“Ti si possa rompere un femore”, disse Biondoplatino.
“Anche due”, aggiunse Neroblu.
“A te e a quel leccaculo che ti porti dietro!” concluse Biondoplatino.
“Andiamo a pulire ‘sta vetrina dai.”
Lucia mollò Claudio con una scusa al taxi e si diresse verso via Roma.
In giorni come questi sembra che tutto sia perfetto, l’aria è profumata, non è né caldo né freddo e anche la gente è più bella.
Entrò da Gilli e dopo un attimo di indecisione ordinò un cappuccino: al diavolo, per stare a dieta aveva ancora tempo.
Sorrise ammiccante al barman e si stupì di non venire ricambiata, ma lo dimenticò subito.
Mentre sorseggiava la bevanda calda e profumata chiuse gli occhi e pensò alla faccia che avrebbe fatto Giorgio quando gli avrebbe dato le notizie.
“C’è una novità, anzi due.” No troppo banale, capisce subito.
“Ti ricordi ti dissi di quel manager che va in pensione?” No, troppo larga.
“Amore, nei prossimi mesi sarò parecchio impegnata…” Già meglio, così all’inizio si scoccia e poi la sorpresa, anzi LE sorprese.
Appoggiò la tazza e uscì in Piazza della Repubblica.
In giorni come questi sembra che tutto sia perfetto, ecco un taxi lì che pareva aspettare solo lei.
Mentre si avvicinava alla macchina sentì un brivido improvviso, ma com’era venuto sparì e Lucia lo dimenticò.
Si chinò verso il conducente e lui le sorrise.
mercoledì 6 dicembre 2006
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II - Casa dolce casa |
Cristiano suonò il campanello e aspettò.
Era stanco; il viaggio era stato uno strazio e il prete che gli aveva raccontato la parabola della pecorella smarrita era stato la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Nessun suono dall’interno. Poi l’inequivocabile rumore di quei passettini.
La porta si aprì.
“Diosantissimo, che brutta cera che hai!"
Cristiano sospirò.
“Ciao mamma.”
“Entra! Che fai lì sulla porta come un baccalà, sembri preso in prestito.”
Sì, sto bene anche io mamma…
Cristiano fece un passo avanti, ma la mano di lei lo bloccò:
“Fermo! Pulisciti le scarpe, eh! Bèlle ha dato la cera ieri e tu, Santodio, con quegli stivaloni infangati…ma da dove vieni?”
Cristiano ubbidiente strofinò le scarpe un paio di volte sullo zerbino ed entrò.
La casa era come sempre: pulita, ordinata e perfetta.
“Che poi, mi dico tutti giorni”, continuò sua madre chiudendo la porta, “ci sarà da fidarsi di Bèlle a lasciarla sola? In casa a pulire con tutti quei gioielli di valore e le pellicce che ho di sopra?”
La madre di Cristiano si fermò davanti allo specchio e si sistemò l’arzigogolata acconciatura che aveva in testa.
“Sai che la domestica di Teresa rubava??? La Teresa le ha teso una trappola. Ha lasciato 50 euro in giro e l’ha beccata con le mani nello zaino!”
“Nel sacco”, sussurrò Cristiano, “le mani nel sacco”.
“Come dici?”
“Niente”, rispose Cristiano ad alta voce scuotendo la testa.
“Valle a capire ‘ste filippine; le accogli in casa tua, ci dai ogni genere di comfort, compreso l’ultimo modello di aspirapolvere per pulire, e loro ti ricompensano in questo modo.”
Eh, sì…come non apprezzare un comfort come l’aspirapolvere!
“Dov’è la nonna?”, tagliò corto Cristiano.
“Santiddio, Cristiano, sei come tuo padre! Non si può fare un discorso serio con te che ti irrigidisci e cambi argomento”.
Cristiano la ignorò. Era l’unico modo per difendersi dalla ex signora Bonfanti, tornata Elmetti ormai da 15 anni.
“Tua nonna è in camera sua, dove vuoi che sia…Ma fatti vedere”, aggiunse poi prendendolo per le guance, “sei pallido, smunto…non è che ti sei preso qualche malattia sessuale, vero?”
Cristiano desiderò essere sull’Eurostar che lo avrebbe riportato a Milano, lontano da quel finesettimana romano che sua madre avrebbe reso un inferno.
“Che poi pulisse bene, Bélle”, riprese sua madre mollandogli le guance di scatto e passando il dito sul mobile per testarne la polvere con un polpastrello.
“Vado a salutare la nonna”, disse Cristiano.
“Vai, vai, snobbami pure e spendi il poco tempo che potremmo passare insieme con la madre di tuo padre!”
La gentile signora che mi ha cresciuto - fu tentato di dire Cristiano - mentre tu eri impegnata a tradire papà. E che per giunta sfrutti per avere una villa come casa e una filippina come domestica.
Si morse la lingua e salì le scale, mentre sua madre continuava a borbottare.
Finita la rampa, Cristiano sentì le voci del televisore provenire dalla porta chiusa della stanza più lontana del corridoio.
Cazzo, ma quanto sorda è diventata?
Esitò un attimo di fronte alla porta chiusa, poi entrò.
Il volume del televisore era intollerabile. Brooke se ne stava tra le braccia di Ridge in una scena identica a quella in cui li aveva lasciati 10 anni prima.
“Ciao nonna.”
Lei non sentì. Cristiano ne approfittò per guardarla. Se ne stava nella poltrona come un Buddha nel suo tempio. Era invecchiata e a Cristiano parve inerme adesso che era costretta a passare le giornate tra il letto e la poltrona; lei così vitale e energica sempre intenta a fare qualcosa quando lui era piccolo. Si sentì osservata, perché stacco gli occhi umidi dallo schermo e si voltò verso di lui.
“Ooooohhhhhhhhhhh”, urlò a un volume più alto di quello del televisore, “ Cristianooooooooooo….”
A Cristiano venne voglia di piangere. Sentì le lacrime agli occhi, le ricacciò dentro a forza e la abbracciò.
“Ciao nonna, come stai?”
Lei non capì e continuò ad abbracciarlo e baciarlo ovunque.
“Nonna”, disse lui staccandosi, “possiamo spegnere la televisione?”
“Certo che ho il magone…sarà un anno che non ti vedo.”
Le conversazioni con sua nonna prendevano forzatamente la direzione che lei imprimeva da un paio d’anni a questa parte.
“Nonna, ma sono venuto a Roma meno di un mese fa…”
Cristiano spense la TV.
“Bruc è tornata con Ricci.”
“Ridge, nonna, si chiama Ridge”
“Eh?”
“Niente, lascia stare”, disse lui più a sé stesso che a sua nonna.
“Allora, come va il lavoro? Sei ingegnere, vero?”
“Nonna, è papà l’ingegnere…”
“Fai il ferroviere????”
“No”, mentì Cristiano urlando, “certo che faccio l’ingegnere.”
“Io prego tutte le mattine per te, perché il Signore ti dia tanta salute, un buon lavoro, una bella fidanzata…ce l’hai la fidanzata, vero?”
Cristiano sentì la voce di Erika che gli diceva: “E’ finita tra noi. F.I.N.I.T.A., THE END!”
“Certo nonna, è bellissima.”
“Come?”, fece lei sporgendosi dal letto verso la poltrona dove stava seduto Cristiano.
“E’ BELLISSIMA!”
Sua nonna fece di sì con la testa e sorrise:
“Del resto un bel ragazzo come te…ma quale ragazzo, tu sei un uomo…ma tagliati quei capelloni lunghi, ti vanno tutti negli occhi...”
Lui sorrise.
“E tu preghi vero?”, riprese lei.
A Cristiano venne in mente il parrocchiano sul treno.
“Certo che prego…tutte le mattine”, urlò in risposta.
La nonna parve sollevata.
“Cristianooooo!!!!”, la voce di sua madre da sotto.
“La mamma mi chiama”, spiegò a sua nonna sospirando. Fece per alzarsi ma la mano di sua nonna lo trattenne.
“Non la giudicare male. Non sarà la madre più brava del mondo, ma ti vuole un sacco di bene. Purtroppo noi donne non nasciamo mamme. Impariamo. E alcune sono un po' più dure di altre. A me è successo così, con tuo padre è andata male, ma ho avuto una seconda possibilità con te.”
Fece una pausa.
“Dai una seconda possibilità a tua madre.”
Cristiano la abbracciò di slancio.
“Ti voglio bene, nonna.”
“Che gonna!?!?”
Cristiano la baciò di nuovo e scese ad affrontare sua madre.
domenica 26 novembre 2006
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Funzionalità e referenzialità nella narrazione |
"La questione è involontariamente, quanto magistralmente posta nelle parole di un autore dalla composita esperienza letteraria, Daniel Pennac. *Alessandro Perissinotto, Gli attrezzi del narratore, BUR - Holden Maps"Per ovvio che sia, conviene dunque ribadire che una buona narrazione si basa su un equilibrio delicato tra le sezioni funzionali (quelle dove «accade qualcosa») e le sezioni referenziali (quelle che fanno da «contorno», da «sfondo» e da «approfondimento» dei fatti): far pendere la bilancia in maniera troppo marcata dalla parte della funzionalità significa […] costruire dei semplici elenchi di fatti privi di giustificazioni sociali e psicologiche (un po' come avviene nei peggiori film d'azione); al contrario, puntando tutto sulla referenzialità e riducendo al minimo gli eventi trasformativi, quelli che fanno «cambiare qualche cosa», si corre il rischio di una insostenibile lentezza. Ciò non significa affatto che tutte le storie dal ritmo narrativo incalzante siano aride elencazioni, né che un romanzo dove gli accadimenti siano scarsi sia necessariamente noioso; è solo che più ci si avvicina agli estremi e più è necessario il talento del grande scrittore per gestire una situazione potenzialmente pericolosa.
Un'ultima citazione, sempre dalla stessa fonte. Si riferisce al ruolo chiave dei personaggi nel dare originalità alla narrazione:
[…]
Non bisogna essere troppo rigidi in queste categorizzazioni: nelle telenovelas e nelle soap opera (corrispettivi audiovisivi del romanzo popolare) non capita nulla per intere puntate e tutto è giocato sugli stati d'animo dei personaggi, così i libri d'amore della collezione Harmony o Bluemoon, ma anche i grandi romanzi popolari tradizionali (da Dumas a Carolina Invernizio), sono ricchissimi di minuziose descrizioni, sono fitti di informanti. Tutto ciò, se da un lato smentisce l'equazione «funzionale = popolare», dall'altro conferma la possibilità, per un testo funzionale opportunamente concepito, di essere fruito senza bisogno di un profondo lavoro interpretativo."
[A proposito di Guerra e Pace]
«Di cosa parla? »
«È la storia di una ragazza che ama un tizio e poi si sposa un terzo.»
Quante altre storie potrebbero essere descritte con queste parole? In quante decine o centinaia di romanzi c'è una ragazza che ama un tizio e ne sposa un terzo? Inventare una vicenda dove una ragazza ama un uomo, ma poi ne sposa un altro non richiede alcuno sforzo, alcuna capacità.
Quello che richiede talento è rendere credibile quella storia così costruita e vista; e la credibilità nasce proprio dalla caratterizzazione dei personaggi, dallo smisurato numero di variazioni sul tema che si possono effettuare lavorando sulla fisiononima del personaggio, sui motivi per cui prende certe decisioni, sul modo in cui vive gli eventi, sulle implicazioni sociali dei suoi comportamenti.
martedì 21 novembre 2006
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Aiutami Cap. 1 |
Lucia guardò le prime gocce di pioggia dalla finestra di cucina stringendosi nella copertina di pile.
Tirando su col naso andò nella sua stanza a cercare un nastro per legare i capelli lisci e sporchi che le ricadevano sul viso, ma non trovava più le sue cose, qualcuno doveva averle spostate.
Oddio che mal di testa.
Dev'essere l'autunno che mi mette tristezza, ho tanta voglia di piangere.
Mi sento così sola, ho bisogno di parlare... sentiamo la Gianna, mi tira sempre su.
Però sono le dieci, è tardi, non si può chiamare in casa della gente a quest'ora.
"Scusa so che è tardissimo... non avrei dovuto telefonare... ti disturbo?"
"Ma no, stavo guardando un telefilm. Che c'è, che è successo, stai bene?"
"No niente... ero qui... sai Giorgio è a Londra e... sì, insomma ero qui da sola... mi è presa un po' di tristezza, sai..."
Gli occhi di Gianna vagarono alla ricerca del posacenere.
Dove cavolo è, oddio saranno mica tutti nella lavastoviglie?
Porca miseria ma qui piove!
"Oh hai visto: piove!!!"
"Eh già davvero, che tristezza, è proprio..."
"Scusa levo i panni e ti richiamo. Va bene?"
"Sì sì figurati... tanto son qui... dove vuoi che vada ciao ciao..."
"A dopo."
Gianna cominciò a togliere caoticamente dal filo calzini, mutande e magliette e pensò a come si sarebbe potuta vestire l'indomani.
C'era qualcosa di sadico nella scientificità con cui Teodora metteva le riunioni più rognose proprio di lunedì mattina.
E poi arriverà già incazzata e mi subisserà come sempre di domande stupide che rivelano quanto poco capisca del lavoro dei suoi subordinati.
Non ci devo pensare ora, no, tanto non serve.
Ecco lo sapevo: tanto per cambiare mi è cascata di sotto una calza di quelle buone e siamo nei sei mesi che l'omino del seminterrato vive in barca, accident'a' poeri.
E io domani che mi metto allora? Il tailleur pantalone gessato... no: fa troppo donna manager aggressiva che ha messo da parte la sua femminilità in nome di una carriera che, detto tra parentesi, non decolla. E alla riunione c'è anche quel tòcco del Liberati quindi la calzettina con la gonna ci stava parecchio bene.
Accidenti a quella cazzo di Teodora!
"Ehi Gianna ci sei?"
"Oh ciao scusa è che mi è cascata della roba di sotto mentre levavo i panni"
"Oddio allora ti disturbo, vabbè dai ti richiamo..."
"No Lucia dai, dimmi. Come stai, va un po' meglio?"
"Senti stamani mi pareva di stare bene, mi sono svegliata verso le nove, poi ero indecisa se andare in palestra perché..."
Miseria cane: il posacenere!!! Se non fumo scoppio.
La Lucia mi fonde il cervello. Poverina, certo con tutto quello che le è capitato... le devo stare vicino ma mi fa due palle così.
"... poi dovevo andare a pranzo dai miei ma ho saputo che c'erano anche la Claudia e Marco con il bambino, e io dopo quello che è successo proprio non me la sento..."
E vabbè butterò la cenere nel sottovaso. Sennò mi potrei mettere i pantaloni da cavallerizza con gli stivali sopra. Giacca? Sì, giacca. Dove sarà la borsa che fa pendant, vediamo un po'.
"... verso le tre ha chiamato Giorgio ma non si sentiva niente, un casino, era per la strada. Certo che poteva chiamare più tardi dall'albergo no? Gliel'ho detto sì, però dice che stasera aveva quell'incontro e doveva spengere il telefono, poi non sapeva se faceva tardi..."
Povera crista. Questo sta a fargli un mazzo di corna... e quel che è peggio un po' lo capisco.
Gianna abbandonò la missione borsa pendant e si buttò sul divano con le migliori intenzioni.
Mentre aspirava il fumo con intensità il suo sguardo correva lungo le pareti della casa da single arredata con passione e gusto.
Mise il volume a zero cercando di riconfluire nel fiume di parole di Lucia.
Per concentrarsi meglio chiuse gli occhi e pensò a quanto si sentiva fortunata.
***
"Poi ti volevo dire, la settimana prossima Giorgio torna per qualche giorno in Italia, ha degli esami, delle cose, non ho capito bene, insomma volevo fare una cena, anche con Ivana e Fabio, te sei libera diciamo... giovedì o venerdì?"
"Beh... giovedì ho il corso che mi finisce tardi, venerdì non so... ma sei sicura di non strapazzarti troppo? Tutta questa gente..."
"Senti Gianna, se ti dico che ho voglia di fare una cena la potrò fare? Possibile che stiate tutti a dirmi cos'è meglio per me? Pensi che non sia in grado di fare un piatto di pastasciutta?"
"Lucia, io..."
"Pensi di essere tu, l'unica, irripetibile e perfetta padrona di casa, regina del soufflè, principessa del brillantante, sempre calma e prodiga di consigli come un fottuto grillo parlante?"
"Lucia, ora basta."
"No non basta, perché ne ho le palle piene di te, tuo fratello e della vostra sicurezza del cazzo. Solo voi siete bravi. Sì. Solo voi. Cosa ne vuoi sapere te poi... con la tua casina perfettina, i tuoi aggeggini e le tue manie da zitella. Troppo comodo così.
Non lo sai te cosa vuol dire. Non lo sapete VOI cosa vuol dire.
Sempre impegnati a mantenere il controllo, a gestire la vita come se fosse il vostro capolavoro unico e irripetibile. Pensate davvero di essere migliori di me? Pensate che le vostre agende perfettamente organizzate fino al 2010 vi terranno al sicuro dalla merda che la vita ti butta addosso all'improvviso?
Perché prima o poi la merda ti arriva addosso cara Gianna, arriverà anche a te, sulle tue scarpine di Prada, sul parquet lucidato e sui capelli sempre freschi di messimpiega.
Io lo vedo da come mi guardi, pensi che sia una disgraziata. Pensi che tutto quello che mi è successo me lo sia cercato. Chissà che gli hai detto a Giorgio eh? Che sta con una pazza malata di mente, lo so che glielo hai detto. Che ha fatto bene a fare quello che ha fatto, eh? E' con te che stava sempre a bisbigliare al cellulare, lo so!
Ma una cosa te la voglio dire. Tu non sai cosa vuol dire essere una madre. Non lo sai che la vita non è più quella di prima. Che esiste solo lui, che non hai più tempo per essere "carina", per essere "brillante", per essere unica, scintillante, guardate che fica la mia ragazza che se ha partorito un mese fa, il bambino ci fa dormire, benissimo, certo, lo allatta lei, nessun problema, stiamo da dio, basta dare delle regole e tutto funziona, vero amore? stiamo da dio. Brutto bastardo. Maledettissimo figlio di puttana. Se solo mi fossi stato un po' vicino quando ce n'era bisogno... non sarebbe andata com'è andata.
No, sarebbe andata in un altro modo...
Gianna... scusami, io... non so più quello che dico... sto sragionando. Perdonami.
Gianna per favore dimmi come sta Matteo.
L'hai visto? Sei stata dai tuoi? Avete giocato? L'hai portato fuori? Ha mangiato?
Dimmi qualcosa per piacere.
Dimmi come sta il mio bambino.
Gianna?"
Lucia cercò di riprendere fiato mentre aspettava la risposta della cognata, ma all'altro capo del filo ormai da un po' non c'era più nessuno.
giovedì 16 novembre 2006
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III - Sottopassaggio |
Mi guardai attorno, poi cercai inutilmente la coppia alla fermata dei taxi di fronte alla stazione. Presi le scale mobili del sottopassaggio. Qualcuno scendeva in gran fretta, chiedendo scusa a nome della ventiquattrore che lo precipitava giù. Io mi lasciavo trasportare immobile, appoggiato con il gomito sul corrimano, mentre incrociavo gli occhi della gente che saliva a piedi. Il corrimano si muoveva più lentamente dei gradini, perciò ogni tanto dovevo spostare in avanti il punto d'appoggio, per non cadere all'indietro. Cosa che peraltro per poco non successe.
Passeggiavo tra le vetrine, appallottolando il pezzo di carta con il numero del poliziotto. La coppia del treno mi era già passata di mente, quando sentii una voce rimescolare l'aria. Il signore incravattato parlava al cellulare, la faccia rivolta al muro. All'ingresso del negozio di dischi notai la valigia della ragazza. Senza mai interrompere la telefonata, l'uomo si affacciò dentro al negozio, poi tornò indietro. Cominciò una complicata manovra: la mano sinistra fece comparire un borsellino da dentro la giacca, il polso con un movimento lo aprì, il ginocchio lo tenne sollevato, due dita ne estrassero una banconota e, infine, di nuovo il borsellino sparì nella giacca.
Mentre l'uomo era in equilibrio su una gamba, avevo immaginato di assestargli un preciso calcio dietro il ginocchio, e di vederlo franare giù. Con una schicchera gli tirai la pallottola di carta, colpendolo alla testa. Non si grattò nemmeno.
Non riuscivo a capire se portava ancora l'anello al dito. Si affacciò un'altra volta dentro al negozio, poi con passo svelto raggiunse un distributore automatico, poco più avanti.
Entrando nel negozio di dischi, quasi inciampai sulla valigia. La ragazza era lì a un passo. Sfogliava i cd in offerta.
"Oh scusami, l'ho messa in una posizione proprio stupida. È che ho paura me la rubino, e dentro non c'è spazio con tutta questa gente."
Da una cinghia della valigia pendeva una targhetta. Lessi un nome: Camilla.
"Oh no, figurati…" risposi. Mi svelò un breve sorriso, si raccolse i capelli dietro l'orecchio e ritornò al suo lavoro scrupoloso. Una dopo l'altra, le sue dita sottili ispezionavano un cd, poi, inarcandosi di scatto, lo facevano schioccare contro alla pila dei già visti. D'un tratto la mano si arrestò. Mancavano ancora cinque album di Tom Waits all'appello.
"Ma…ci conosciamo?" mi chiese, accentuando, in modo quasi innaturale, l'espressione interrogativa del viso.
"Ecco…io…ho visto prima che…ma ti interessava Michelucci?"
"Come scusa?"
"No niente… È solo che quell'uomo, mi sembra…" In quel momento il viso di lei scomparve dietro una spalla.
"Io ho finito. Se vuole possiamo andare" disse l'uomo. La pallottola rosa occhieggiava tra il grigio dei capelli, come un ciuffolotto intrappolato nel fil di ferro.
"Sì certo, andiamo" rispose lei docilmente.
Mentre uscivano lui afferrò la valigia, lei si voltò a guardarmi, con quell'espressione ancora aggrovigliata intorno agli occhi. Vedendola girarsi e darmi le spalle, mi domandai quanto avrebbero impiegato, quelle increspature, a lasciar posto alla normale limpidezza del volto. E mi venne in mente una scena: la superficie di un lago al tramonto, dopo il tuffo di un auto con dentro qualcosa da far sparire; un uomo, seduto sul ciglione, che guarda le schegge argentate correre a ricomporsi in uno specchio intatto. Non ricordo di quale film.
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II - Stazione |
Li anticipai, portandomi là di corsa, e appoggiato a una delle transenne aspettai. Quasi subito mi accostò un agente della Polfer. Mi chiese se era tutto a posto. Risposi di sì, che era proprio tutto a posto. Stavo forse aspettando qualcuno? Qual era il motivo per cui mi trovavo a Firenze? Prima di stabilirmi qui cosa facevo? Sembrava molto infastidito e domandava senza mai smettere di masticare una gomma. Molte sillabe dovevano restargli tra i denti, dato che, spesso, troncava le parole prima che riuscissi ad afferrarne il senso. Gli diedi la carta d'identità. Il signore con la valigia e la ragazza ci passarono di fronte: lui parlava ancora, ma ora teneva la mano sinistra dietro la schiena. Si rigirava la fede tra il pollice e il mignolo, con meticolosità, come se stesse regolando il timer di un detonatore.
"Ehi mi stai ascoltan'? Ti ho chiesto dove àbi'."
"Scusi?"
"Do-ve a-bi-ti."
"Io? In viale Guidoni, al 46."
"E da quan'?"
"Da un mese… più o meno."
"E da quanto sei domicilato a Firenze?"
"Da circa sei.""Per lavoro hai detto?"
"Sì… ora sto cercando."
"Capisco. Scusami se sono stato un po' brusco prima. Ma gira certa gen', non sai mai con chi hai a che fare. Anch'io sto da poco a Firen'."
"Mm mm."
"Non è proprio una città molto accoglien'. Come gente dico."
"Eh sì."
"Tu cosa fai la se'? Hai il tuo giro di amicizie?"
"No… cioè sì. Qualcuno."
"Io mi chiamo Mario, piacere."
"Piacere."
"Che ne dici di venire da me a prendere un caffé una di queste sere? Potresti lasciarmi il tuo nume', che ne dici?"
"Il mio…? Ah… non…non ho numero. Cioè, non ho un telefono."
"Capisco. Senti, ti lascio il mio, così se una sera ti va…"
"Mm mm."
"Ho una collezione di pistole a casa davvero stupenda, qualcuna è anche molto antica. La maggior parte le ho eredita' da mio padre, ma anch'io ci tengo molto sai? Ogni tan' ne aggiungo un bel pezzo nuovo."
"…"
"Se non c'è quella stupida della Tizi - la tipa che abita con me - te la farò vedere. Credimi è molto interessan'. Lei è un po' isterica, capisci, si mette a sbraitare ogni volta che la tiro fuori. La collezio', dico."
"Sssì."
Scrisse su un pezzo di carta rosa.
"Ecco questo è il mio numero, tieni. Ora devo andare. Mi raccoman', chiama appena puoi. Piacere di averti conosciuto Fosco."
"Piacere."
Mi fece il gesto di telefonare, strizzando l'occhio tra il pollice e il mignolo, mentre li scuoteva allontanandosi.
mercoledì 15 novembre 2006
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I - Eurostar 9450 |
“E' occupato?”
Cristiano fu tentato di rispondere di sì, ma scosse la testa e spostò la borsa che aveva messo sul sedile accanto al suo.
L'uomo prese ad armeggiare con la sua valigia, tentando di sfilare da una tasca stipata il libro.
Cristiano smise di fissarlo e si concentrò sulla sua lettura.
“Ah...al diavolo!” - disse infine l'uomo riponendo la valigia e sedendosi - “del resto non riesco mai a leggere in treno; meglio due chiacchiere, no?”
No - pensò Cristiano – meglio farsi i cazzi propri!
Era sempre sfortunato nei suoi spostamentii. Mai che riuscisse a farsi un viaggio in santa pace. Che fosse in treno o in aereo, capitava sempre accanto a qualche grassona che tirava fuori dalle sue borse di plastica arance, panini e ogni genere commestibile da offrirgli.
Come se poi i treni o gli aerei fossero luoghi di socializzazione.
E ora 'sto tizio bianco come un cencio e con due fondi di bottiglia al posto degli occhiali che voleva fare conversazione.
“Lei dove è diretto?”
Cazzi miei.
“Roma” - rispose Cristiano continuando a leggere il libro non leggendolo.
“Io scendo a Napoli, invece”. La voce dell'uomo era bassa e pacata. “Vado al raduno del mio gruppo di catechesi. Ogni mese una parrocchia affiliata con la nostra ci ospita per un fine settimana di riflessione e preghiera.”
PORCATROIA! Un parrocchiano!
A mali estremi estremi rimedi: Cristiano chiuse il libro e tirò fuori dalla borsa l'iPod. Lo accese portando il volume al massimo e sperando che anche l'uomo sentisse. Chiuse gli occhi e lasciò che la musica invadesse i suoi pensieri. Stava quasi per scivolare nel sonno, quando sentì una leggera pressione sull'avambraccio. Incredulo aprì gli occhi. L'uomo, con un sorriso beota stampato in volto, lo fissava e gli indicava una scatola di biscotti facendogli segno di pescare.
Cristiano fece no con la testa e richiuse gli occhi. Tentò di tenerli chiusi ma non riuscendoci, li riaprì giusto in tempo per vedere le labbra dell'uomo che gli indirizzavano frasi mute. Cristiano sospirò e lesse il labiale.
Prego al mattino? Cazzo! Ma che ti dice il cervello di fare certe domande a uno sconosciuto! No – gli venne voglia di urlare – e se non la smetti di rompermi le palle, più che pregare inizio a bestemmiare!
“No” - rispose Cristiano in un sussurro togliendosi le cuffie. Fu insoddisfatto della risposta e volle aggiungere qualcos'altro che potesse scandalizzare l'uomo, ma non gli venne in mente niente e ripeté: “No”.
L'uomo stava per replicare quando una ragazza si sporse verso Cristiano dal sedile dietro:
“Posso chiederti un favore?”
Cristiano annuì.
“Ti spiace spostarti al mio posto così io e la mia amica sediamo di fronte?”
Cristiano guardò la biondina insignificante che gli stava davanti e lo fissava con due occhi a palla indirizzandogli il migliore dei suoi sorrisi.
Cazzo sì!!!
“Certo” - rispose - “nessun problema”. E prima che qualcuno potesse cambiare idea si affrettò a raccattare la borsa e il giubbotto e si alzò frettolosamente. La ragazza si accomodò al suo posto mentre Cristiano sorrise trionfante al parrocchiano spostandosi nel posto dietro al suo. Si accomodò e guardò con la coda dell'occhio i suoi vicini: posti davanti vuoti, di lato un innocuo quindicenne con la musica a tutto volume e una maglietta con Topolino che mostrava il dito medio.
Ringraziò in silenzio tutti i santi che conosceva e riaprì il libro che stava leggendo.
Alzò la testa solo quando dal bagno uscì il prete che riprese il posto davanti al suo.
Il sacerdote gli sorrise, lo fissò per un attimo e poi disse:
“Figliolo, lei dove è diretto?”
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Volevo fare come la Madonna |
Come si fa a correre senza sapere dove andare? Io preferisco camminare piano. A voi forse sembrerà facile ma io non riesco ad andare a zonzo rapida come una mosca impazzita. A fare così prima o poi si inciampa in una ragnatela. Non è mica colpa di nessuno, no. Succede e basta. Perciò ho deciso che voglio camminare piano. Tanto più che prima correvo:
poco più di una bambina e già ero madre. Da qualche parte sicuramente esisteva un colpevole. Mio padre lo trovò e decise di punirmi. Fui condannata a stare con lui finchè morte eccetera eccetera.
Strani uomini mio padre e il padre di mia figlia. Non sapevano chiedere senza aggredire. Persone fragili che avevano bisogno di aiuto.
Io no. Lo aveva deciso papa’ quando disse che per lui ero morta. Non per cattiveria, solo perché nessuno gli aveva scritto una nuova battuta e lui riciclò quella di suo padre e del padre di suo padre; per attaccamento alle tradizioni, ecco.
Allora barattai la mia resurrezione con una fede al dito. A tutti piaceva pensare che io ero felice. Regalavo bugie per non morire un’altra volta.
Non ero brava come la Madonna, certo. E chi avrebbe creduto mai nel ventunesimo secolo alla favola di quella specie di inseminazione artificiale con tanto di apparizione arcangiolesca? Lei si che era stata proprio brava. Se non avessero creduto alla sua storia le toccava la lapidazione.
Così anch’io volevo fare come la Madonna, inventare una storia leggendaria, essere degna del rispetto di mio padre, vivere accanto ad un uomo buono talmente innamorato da togliermi dal disonore e accettare mio figlio come fosse suo.
Quello che avevo sposato era la prolunga malconcia del cordone paterno. Perciò non mi serviva correre. Mi riarrotolavo alla stessa velocità con la quale mi srotolavo. Effetto yo’ yo’ a parte, lui non sapeva parlare. Il suo disco si era incantato in un punto che diceva: “E’ colpa tua… e’ colpa tua… ” . Poi rideva e si arrabbiava, con me soprattutto, per qualunque ragione.
Ne avevo tante di colpe io. Me lo disse anche sua madre quella notte che andai a bussare alla sua porta. Dovevo tornare da lui, lei non voleva saperne. Mio padre in cuor suo mi aveva già ucciso e allora tornai a casa e la mia faccia diventò ancora più viola.
Una notte i vicini chiamarono i carabinieri. Avevo un labbro rotto e male alla schiena. Mi aveva preso a calci. Dichiarò di aver tirato qualche schiaffetto perché “anche nelle migliori famiglie ci sono discussioni”. Sorrisi di complicità, gomitate, uno in divisa mi fa: - Signora sta bene? Vuole fare la denuncia? – una chiara intimidazione, il mio uomo minaccioso non mi perdeva di vista. No, che non stavo bene e no, che non volevo denunciare. Ma cosa glielo dicevo a fare.
Io volevo solo essere come la Madonna. Passare la nottata, sopravvivere, vedere sorgere il sole e poi cercare un posto dove andare. Se lo denunciavo lui diventava più cattivo.
Con i giorni passarono anche le diverse tonalità di viola. Guarito il labbro, guarito tutto, meno la paura. Presi i ricordi che lui non aveva distrutto e andai da una amica. Mi ritrovò e minacciò di demolirgli casa. Tornai indietro.
Mia madre mi disse che il matrimonio era così: “vedi quanti sacrifici faccio io per mantenere la pace in famiglia!” Si mamma, lo vedo. Ho capito.
La mia amica mi accompagnò a parlare con la tizia dell’associazione. Era così bella. Non aveva neppure un livido. Curata, perfetta. Mi guardava per capire con quale scusa mandarmi via. “Non riesco più a vedere il mio futuro!” – le dissi. Non fu sufficiente. “La situazione finisce se decide che finisce!“ – mi rimproverò.
Non reggevo il suo sguardo. Mi faceva vergognare di esistere. Allora era proprio vero: me lo meritavo! Altro che fare la Madonna. Lei aggiustò più volte una splendida ciocca dei suoi capelli e aggrottando le sopracciglia mi disse che mi fissava un appuntamento con una psicologa.
“Non posso tornare a casa. Ho bisogno di un lavoro…” – provai a chiedere. Quella insisteva che bisognava prima fare la denuncia e da lì iniziava la trafila per l’ammissione alla casa protetta. “Ma se lo denuncio e resto a casa con lui come faccio a non morire?” “Deve capire… che non abbiamo tanti posti, non ci danno abbastanza contributi. Lei intanto vada a dormire da un’amica…”
Certo, come no! Tornai a casa. Mia figlia si addormentò presto, povera cucciola. Presi una lama, quella più affilata. Rimasi così seduta per ore, con il coltello in mano. I suoi passi, udivo distintamente il suo respiro, poi infilò la chiave nella serratura. La porta si aprì.
venerdì 10 novembre 2006
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Una giornata guadagnata |
‘Questi impermeabili da 99 centesimi che si ripiegano fino a stare in una taschina devono essere cinesi.’
Guido allo specchio dell’ingresso si dà un’ultima controllatina alla composizione dei capelli poi pulisce gli occhiali con cura ed esce.
Sull'autobus non presta attenzione alla filippina che trattiene a stento le intemperanze delle figlie già grassissime, non sente la ragazzina che piagnucola al cellulare, tanto meno percepisce il tanfo del barbone accanto a lui.
Come in trance si ritrova in ufficio. Prima di sedersi alla scrivania esegue uno studiato rito che gli permette di perdere dai 3 ai 4 minuti: appende la giacca all'attaccapanni, guarda fuori dalla finestra, controlla l'umidità del terriccio delle piante grasse, va al boccione a riempirsi una bottiglietta d'acqua, incrocia e saluta un paio di colleghi, innaffia le piante, beve un sorso, lancia uno sguardo di odio al Nemico e in atteggiamento di resa si china ad accenderlo.
Mentre il Nemico si anima con i consueti rumorini Guido prende tempo raccogliendo e ordinando i fogli sulla scrivania.
La scadenza è vicina e lo aspetta un'insopportabile giornata di inserimento dati e spuntatura.
Gli altri dell'ufficio sono in ferie, è completamente solo, ma questo non gli dispiace.
Il Nemico cessa di rumoreggiare e Guido con un moto di orgoglio alza la testa fiero e pronto a fronteggiare le schizofreniche letterine verdi lampeggianti.
Invece sullo schermo campeggia su sfondo rosa una frase:
"GUIDO ASCOLTAMI: TI DEVO PARLARE URGENTEMENTE”
(premere un tasto per continuare)
Guido si guarda a destra e a sinistra e poi alle spalle, assumendo istintivamente l’atteggiamento del protagonista di un film di fantaspionaggio.
Chiude ed apre gli occhi più volte, si toglie gli occhiali, li pulisce di nuovo, li inforca agitato, ma sullo schermo la situazione non è cambiata:
"GUIDO ASCOLTAMI: TI DEVO PARLARE URGENTEMENTE”
Ormai già schiavo dei nuovi desideri del Nemico Guido preme invio.
"TI DEVO PARLARE URGENTEMENTE: ALZA IL VOLUME”
Guido avvicina la mano tremolante al regolatore del volume e in quel momento suona il telefono.
mercoledì 8 novembre 2006
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Vaianelli verdi |
Faceva molto caldo, Teresa non ricordava il motivo della sua tristezza, ormai era triste da così gran tempo che non ne ricordava più il motivo. Il pomeriggio era torrido, Beppino si muoveva lento. Non si ricordava più neppure se era venuta lei a trovare Beppino o se lui era venuto a trovare lei. Sentiva solo le sue troppe carni scomodamente pesare sulla sedia imbottita ed appiccicarsi ai braccioli. Per strada non si sentiva un rumore, tutti a quell’ora si fermavano. Beppino si era alzato presto, come faceva sempre, ed era andato al mercato della marina a comprare i vaianelli freschi. Si trovano solo in questa stagione, non sono buoni quelli grossi che vengono da lontano. Li aveva lavati e li aveva messi ad asciugare sul rovente pavimento della terrazza abusiva, che tanto non dava noi a nessuno. Anche il vicino ne aveva fatta una. Si ricordava che quando era giovane lui ed aveva costruito la casa, ci si metteva d’accordo tra vicini, e se non si dava noia ai dirimpettai che motivo c’era di avvertire le autorità? Forse avrebbe anche alzato un altro piano, ma aveva tre figlie e la casa aveva già tre piani, per i nipoti, no, per loro non avrebbe rialzato la casa, tanto quando venivano a trovarlo non erano mai tutti insieme e del posto ce n’era già abbastanza.
Beppino toglieva i semi da dentro i vaianelli, perché sono quelli che piccano, Teresa continuava a stare immobile ad osservarlo, continuando a sentire la pesantezza della sua tristezza gravare sulla sedia insieme alle sue membra. Non capiva perché i movimenti lenti del vecchio padre la ipnotizzavano così. I vaianelli vanno arrostiti su una piastra e poi spellati con le mani. Perché con quel caldo si doveva accendere il fuoco sotto la piastra di pietra? Le mani di Beppino non si bruciavano con i vaianelli caldi. Teresa aveva provato a sbucciarne uno per rompere il suo torpore, ma si era scottata le dita e ci aveva rinunciato. Eppure osservare quei movimenti lenti ed esperti la rassicurava. Teresa sentiva che giù al piano terreno era arrivata Concetta a prendere il caffè con sua sorella e la chiamavano per unirsi a loro, non rispose e credettero si fosse addormentata. Neppure Beppino sembrava essere disturbato da quelle voci. Quando ebbe finito di pelare i vaianelli li mise sotto sale ed olio e li lasciò freddare.
Teresa si accorse soltanto nel tardo pomeriggio di essersi addormentata. L’odore del caffè non si sentiva più. Si sentivano le voci di condoglianze. Avrebbe dovuto scendere, vestirsi magari di nero e salutare i compaesani che erano venuti a porgere il saluto alla sua anziana madre pronta per l’imminente funerale.
Quando scese c’erano rimasti solo i nipoti e le comari più vicine indaffarate a preparare la cena per chi, dei parenti, venuti da lontano per le condoglianze, si tratteneva fino al funerale l’indomani. Le dissero che erano venuti anche quelli del Partito. Avevano onorato anche suo padre quando se n’era andato, se ne ricordava bene, teneva ancora quel manifesto con la fascia a lutto, arrotolato nel cassetto. Le avevano fatto piacere quelle parole sull’integrità di suo padre ed il rispetto che tutti gli avevano dimostrato. Allora l’attuale presidente aveva voluto esprimere il cordoglio per la perdita di Beppino che era stato il primo presidente del Partito in paese, ed adesso mandava il suo cordoglio per Maria la vedova di Beppino. Teresa non sopportava l’odore dei gigli che con l’aria calda sapevano di marcio. Possibile che a nessuno era venuto in mente di spalancare le finestre e cambiare l’aria? Le spalancò lei.
Non aveva voluto mangiare insieme ai nipoti ed agli altri commensali. Non aveva fame e durava una gran fatica a riconoscere tutte quelle facce. Tornò su all’ultimo piano. Lassù non si sentiva l’aria pesante di fiori e di stantio che pervadeva il piano terreno. Portò il piatto di spaghetti con sopra i vaianelli arrostiti sulla terrazza abusiva dove spirava un po’ di aria nuova. Li mangiò con gusto senza domandarsi dove fosse Beppino che li aveva preparati.
SILVIA 8 NOVEMRE, 2006
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La goccia che fa traboccare il vaso |
La porta sbatté. Carmen rimase immobile con gli occhi pieni di lacrime indecisa se entrare o meno. Poggiò la mano grinzosa sul pomello, ma la ritrasse subito come se si fosse scottata.
Dalla cucina arrivava l’odore del soffritto di cipolla che stava preparando. Rimase ancora qualche secondo di fronte alla camera del figlio, poi ricacciando le lacrime negli occhi, si volse lentamente a guardare fuori da una finestra.
Il buio era già sceso da un paio d’ore e fuori la pioggia batteva incessante. Carmen fu tentata di lasciar bruciare il soffritto sul fuoco e uscire senza cappotto e senza ombrello a farsi bagnare dalla pioggia. Poi riprese coscienza di dove era e di cosa stava facendo e asciugandosi la faccia ancora umida con il canovaccio che aveva in mano si trascinò in cucina.
L’odore di cipolla era forte, insopportabile e Carmen fu presa nuovamente da un’irrefrenabile voglia di scappare. Per la seconda volta si scosse. Accese l’aspiratore e tirò fuori il tagliere e un coltello. Iniziò a sbucciare le carote e quando ebbe terminato prese a tagliarle a sottili rondelle. Portò avanti questa azione carota dopo carota finché il coltello non le scivolò verso l’indice sinistro con cui teneva ferma la verdura. Carmen ritrasse istintivamente il dito portandolo in bocca e succhiandolo. Sentì il sapore metallico del sangue.
Prese il canovaccio con cui si era asciugata il viso un attimo prima e lo strinse forte intorno al taglio. Si mise a sedere accanto al tavolo appoggiandosi con il gomito e portando la mano destra sulla fronte come a sorreggersi. Rimase in questa posizione qualche secondo; poi iniziò a singhiozzare, prima piano, poi sempre più forte. Si tolse il canovaccio dal dito ferito e cercò di usarlo per attutire i suoi singhiozzi disperati. Ma ormai il pianto era incontrollabile.
Quando finalmente i singhiozzi iniziarono a placarsi, Carmen si alzò, si sciacquò il viso con l’acqua fredda del rubinetto della cucina e rimase un attimo in silenzio ad ascoltare il ticchettio della pioggia che fuori continuava incessante .
Poi spense il fornello dove cuoceva il soffritto, prese il coltello con cui si era tagliata e stringendo ancora il canovaccio nell’altra mano si diresse verso la camera del figlio.
Bussò alla porta come lui voleva che facesse e per tutta risposta udì:
“Vaffanculo, stronza!”
Carmen aprì la porta come se lui l’avesse invitata ad entrare e lo guardò abbozzando un sorriso.
“Cazzo vuoi?” - la apostrofò lui a testa bassa.
Carmen continuò a sorridere mostrandogli la mano sinistra insanguinata.
Solo in quel momento lui alzò la testa e vide il coltello.
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Le vacche |
Tutte in fila, come vacche che si rifiutano di dare il latte, pronte per essere macellate. L’omino marchia la pelle con l’anestesia. Pochi capelli, cinquant’anni portati male, occhio allusivo. Ha il camice bianco e per lui siamo puttane. Si attarda sul corpo della più giovane. Le carezza il braccio “per prevenire la comparsa di un ematoma!”
Mentre la volontà scompare, il mondo si chiude su risa e suoni di gente che aggeggia dentro di me. Dispiaciuta, sono dispiaciuta. Soprattutto sono arrabbiata. Con me stessa, certo. Potevo stare più attenta, alla mia età poi. Noi poveri non possiamo permetterci questi lussi. La mia è una generazione disgraziata: a quarant’anni ancora dipendi dalla mamma e dal papa’.
Ma la rabbia non è tutta per me. La donna che ho incontrato al consultorio era gentile, carina. Aveva l’ansia da personale sotto organico chiamato a fare perenni straordinari. Faccia da pronto soccorso in stile con un “fermi tutti, qui ci penso io!”
Non mi è sembrata una che desse giudizi morali. Certo non parteggiava per me: Fissò il mio intervento con l’infornata di molte settimane dopo. Soltanto una prima che scadesse il tempo.
Giorni di merda quelli. Come stare su una barca con il mare in tempesta. Capite come stavo io? Non c’era niente, dolce o salato, che riuscissi a trattenere. Male dappertutto e la depressione dipingeva tutto di nero.
Ho perso il lavoro e per poco non perdevo anche il compagno. Sarebbe stato grave. Uno di sinistra non si trova dietro ogni angolo. Denunciava di sentirsi trascurato mentre lo buttavo fuori dal letto. Perché le femmine in cinta agli uomini sono sempre piaciute. Il mio malessere per lui era un dettaglio risolvibile. Bastava che all’improvviso lui prendesse a trattarmi come una bambina idiota. Compassione piuttosto che rispetto e corresponsabilità.
Al consultorio avevo visto altri uomini. Uno ottemperava. Roba di doveri da protocollare e archiviare. Ce n’era un altro. Pareva uno delle poste. Fatta consegna, via. Lei era probabilmente la badante della madre, o la sua.
Riapro gli occhi su una brutta stanza d’ospedale. Mi rimandano a casa che sto ancora rincoglionita. Ferita chiusa, possibilità chiusa, utero aperto. Rimane così: spalancato. In medicina si richiude a sprangate. La pillolina postoperatoria sembra innocua ma provoca crampi che nessuno si preoccupa di anestetizzare. Doglie similparto per settimane.
I dottori fanno i pusher solo per dolori consentiti e soprattutto spontanei. Quelli autoindotti non si attenuano: “Bisognava pensarci prima!”
Urlo l’utero che si richiude, accidenti a lui. Urlo il mio uomo eccitato mentre guarda il mio seno “grosso”. Urlo il mondo intero.
Proprio come fare una passeggiata!
martedì 7 novembre 2006
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I - Arrivo |
"Scusi, ferma a Santa Maria Novella?" mi domandò, trascinando poi lo sguardo sul signore a fianco a me. Gli osservai la cravatta. Era a quadrettini rossi bordati di nero: fissandoli davano l'impressione di muoversi su binari paralleli, con sensi di marcia invertiti. Il nodo affondava fino al secondo bottone della camicia: ne fuoriuscivano sottilissimi e bianchi zampilli di peli.
"Sì certo, è la prossima stazione" rispose lui con un boato. Approvai con una smorfia, tanto per far capire alla ragazza che anch'io avrei saputo risponderle. Lei sussurrò un grazie, che cadde nella stretta intercapedine tra me e il signore, e sembrò poi che con rapidi movimenti degli occhi ne seguisse i rimbalzi casuali, fino ai propri stivali lucidi indossati sopra i jeans.
Più il treno rallentava la sua corsa, più velocemente lo spazio tra le porte si affollava di gente. Pensavo alle parole con cui avrei spiegato alla ragazza, dopo averla aiutata a portare giù la valigia, come la rotellina si poteva facilmente riparare. Al centro del vestibolo, una mano impugnava con forza l'asta metallica infilzata tra soffitto e pavimento, quasi la volesse sradicare e lanciare come un giavellotto lungo il corridoio. Un'altra mano faceva penzolare un vecchio libro. La scritta sulla costola iniziava con Fe e terminava con ata: il resto dei piccoli caratteri dorati, leggermente in rilievo, era coperto da due dita grassocce. Dietro di me le porte si aprirono.
"Signorina, permette che l'aiuti?" domandò una voce di baritono. Mi girai e vidi la valigia diventare leggerissima tra le mani del signore incravattato. La ragazza soffiò un grazie più mirato, che raggiunse il profilo dell'uomo. Mentre i passeggeri sfilavano intorno a me, indugiavo sul predellino. Osservavo il signore che tentava di mettere a posto la rotellina: sulla banchina, a due passi da me, se ne stava rannicchiato, come imploso su se stesso nell'abito scuro che strusciava il pavimento, nascondendogli le scarpe. Anche la testa ripiegata nel petto era invisibile: vedevo solo le spalle accartocciate e la mano destra, che spiccava in alto per reggere la valigia. Ogni tanto una folata faceva spuntare la cravatta rossa, che, come la lingua di uno strano essere deforme, mi sbeffeggiava sventolandosi. La ragazza, leggermente curva su di lui, raccontava l'incidente che aveva causato quel piccolo danno. Parlava con una mano davanti alla bocca, che ogni tanto scopriva per raccogliere i capelli dietro l'orecchio. Erano capelli lunghi e lisci, e a ogni breve risata le loro punte, come mille dita impazienti, tamburellavano sulla mano dell'uomo. Di colpo lui smise di armeggiare sulla rotellina, fece apparire da sopra una spalla la testa e la volse a guardarmi, aggrottando le sopracciglia. Emisi uno sbuffo di sorpresa e mi allontanai velocemente, sentendo come uno schiaffo simultaneo su entrambe le guance.
domenica 5 novembre 2006
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Un blog di racconti e riflessioni sulla scrittura |
L'idea del blog degli apprendisti scrittori nasce durante le lezioni del corso di tecniche narrative, al Giardino dei Ciliegi di Firenze.
Pubblichiamo qui i nostri racconti e le nostre riflessioni sulla scrittura, creando così un luogo di incontro tra stili ed esperienze diverse, alla ricerca di nuovi stimoli e nuove consapevolezze, sospinti dalla motrice del confronto.
Leggete i racconti, commentate, criticate, sollecitate, proponete.
Come si fa tra amici, quando si condivide una passione.