giovedì 16 novembre 2006

III - Sottopassaggio

I - II - III - IV

Mi guardai attorno, poi cercai inutilmente la coppia alla fermata dei taxi di fronte alla stazione. Presi le scale mobili del sottopassaggio. Qualcuno scendeva in gran fretta, chiedendo scusa a nome della ventiquattrore che lo precipitava giù. Io mi lasciavo trasportare immobile, appoggiato con il gomito sul corrimano, mentre incrociavo gli occhi della gente che saliva a piedi. Il corrimano si muoveva più lentamente dei gradini, perciò ogni tanto dovevo spostare in avanti il punto d'appoggio, per non cadere all'indietro. Cosa che peraltro per poco non successe.
Passeggiavo tra le vetrine, appallottolando il pezzo di carta con il numero del poliziotto. La coppia del treno mi era già passata di mente, quando sentii una voce rimescolare l'aria. Il signore incravattato parlava al cellulare, la faccia rivolta al muro. All'ingresso del negozio di dischi notai la valigia della ragazza. Senza mai interrompere la telefonata, l'uomo si affacciò dentro al negozio, poi tornò indietro. Cominciò una complicata manovra: la mano sinistra fece comparire un borsellino da dentro la giacca, il polso con un movimento lo aprì, il ginocchio lo tenne sollevato, due dita ne estrassero una banconota e, infine, di nuovo il borsellino sparì nella giacca.
Mentre l'uomo era in equilibrio su una gamba, avevo immaginato di assestargli un preciso calcio dietro il ginocchio, e di vederlo franare giù. Con una schicchera gli tirai la pallottola di carta, colpendolo alla testa. Non si grattò nemmeno.
Non riuscivo a capire se portava ancora l'anello al dito. Si affacciò un'altra volta dentro al negozio, poi con passo svelto raggiunse un distributore automatico, poco più avanti.
Entrando nel negozio di dischi, quasi inciampai sulla valigia. La ragazza era lì a un passo. Sfogliava i cd in offerta.
"Oh scusami, l'ho messa in una posizione proprio stupida. È che ho paura me la rubino, e dentro non c'è spazio con tutta questa gente."
Da una cinghia della valigia pendeva una targhetta. Lessi un nome: Camilla.
"Oh no, figurati…" risposi. Mi svelò un breve sorriso, si raccolse i capelli dietro l'orecchio e ritornò al suo lavoro scrupoloso. Una dopo l'altra, le sue dita sottili ispezionavano un cd, poi, inarcandosi di scatto, lo facevano schioccare contro alla pila dei già visti. D'un tratto la mano si arrestò. Mancavano ancora cinque album di Tom Waits all'appello.
"Ma…ci conosciamo?" mi chiese, accentuando, in modo quasi innaturale, l'espressione interrogativa del viso.
"Ecco…io…ho visto prima che…ma ti interessava Michelucci?"
"Come scusa?"
"No niente… È solo che quell'uomo, mi sembra…" In quel momento il viso di lei scomparve dietro una spalla.
"Io ho finito. Se vuole possiamo andare" disse l'uomo. La pallottola rosa occhieggiava tra il grigio dei capelli, come un ciuffolotto intrappolato nel fil di ferro.
"Sì certo, andiamo" rispose lei docilmente.
Mentre uscivano lui afferrò la valigia, lei si voltò a guardarmi, con quell'espressione ancora aggrovigliata intorno agli occhi. Vedendola girarsi e darmi le spalle, mi domandai quanto avrebbero impiegato, quelle increspature, a lasciar posto alla normale limpidezza del volto. E mi venne in mente una scena: la superficie di un lago al tramonto, dopo il tuffo di un auto con dentro qualcosa da far sparire; un uomo, seduto sul ciglione, che guarda le schegge argentate correre a ricomporsi in uno specchio intatto. Non ricordo di quale film.

1 commenti:

Felicita ha detto...

Mi e' piaciuto la prima volta e mi continua a piacere.