lunedì 30 aprile 2007
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VI - L'Ultimo Sapore |
“Tanto tempo fa, in una galassia molto lontana, su un pianeta chiamato Vinovio, viveva un popolo giusto e pacifico. I Vinoviani hanno condotto a lungo una vita serena e tranquilla. Per decenni, secoli, hanno lavorato onestamente basando la loro società su principi solidi e morali. Hanno sviluppato grandi capacità scientifiche, studiando a fondo la medicina e scoprendo vaccini in grado di curare qualsiasi malattia. L'esistenza dei Vinoviani è sempre stata così. Finchè non sono arrivati gli Smorke.Un giorno migliaia di astronavi hanno invaso le nostre città, oscurando i cieli. I Vinoviani hanno capito subito che gli Smorke non erano venuti in pace. Volevano conquistare Vinovio, volevano il potere e l'egemonia sulla nostra galassia e hanno fatto al nostro pianeta quello che già avevano fatto ad altre popolazioni su altri pianeti. Hanno iniziato con i nostri figli. Li hanno rapiti, torturati e uccisi. Poi sono passati alle donne e agli anziani, privandoci delle nostre mogli e dei nostri genitori. Alcuni hanno nascosto i bambini per impedire che venissero rapiti, ma solo in pochi ci sono riusciti. E noi Vinoviani non abbiamo saputo come reagire. Siamo sempre stati un popolo pacifico, non abbiamo mai affrontato guerre. Non avevamo armi e, anche se le avessimo avute, non avremmo saputo come utilizzarle. Così gli Smorke hanno continuato a saccheggiare e raziare il nostro pianeta. Quelli di noi che sono sopravvissuti in qualche modo al loro passaggio, non se la sono cavata solo con qualche brutto ricordo. Prima di lasciare Vinovio, gli Smorke hanno avvelenato le nostre acque, il nostro cibo, la nostra aria. E quando ci siamo resi conto degli effetti che il veleno aveva, era troppo tardi. Tutto quello che c'era di commestibile era stato contaminato con un siero letale, a cui nessun nostro vaccino poteva far fronte. E anche solo respirando, abbiamo scoperto a nostre spese un altro terribile effetto: perdevamo il senso del gusto, la facoltà di sentire i sapori. Non avevamo molta scelta. Abbiamo dovuto prendere una decisione velocemente. Ci siamo organizzati per andarcene dal nostro pianeta. Abbiamo lasciato le nostre case, i luoghi natali dove avevamo sempre vissuto e siamo andati alla ricerca di un altro pianeta, di un’altra galassia, dove saremmo potuti sopravvivere e dove avremmo potuto cibarci e dissetarci, pur non sentendo alcun sapore. Abbiamo peregrinato per lungo tempo, passando da pianeta a pianeta, cercando un posto dove vivere in pace con gli indigeni del luogo. E in questo modo siamo sopravvissuti, ci siamo sfamati e dissetati, senza sentire alcun sapore, ma riuscendo comunque a tirare avanti. Poi, un po’ per caso, un po’ per le ricerche e gli studi condotti dal Professore, siamo giunti sulla Terra. Qui, abbiamo fatto una scoperta clamorosa. Ci sono voluti più di vent’anni. Vent’anni in cui abbiamo convissuto silenziosamente con voi terrestri per capire se veramente quello che avevamo intuito era una realtà. Alla fine il Professore ha appurato la compatibilità delle nostre lingue con quelle umane. Abbiamo esitato per lungo tempo. Siamo pacifici, non volevamo essere la causa di alcun male per nessuno. Ma abbiamo fatto un esperimento che è perfettamente riuscito. Il Professore l’ha testato su se stesso. Ha anestetizzato un terrestre, gli ha sostituito la lingua impiantondogli la sua e il risultato è stato sorprendente. Non solo il Professore riusciva di nuovo a sentire i sapori, ma il terrestre donatore, grazie alle tecniche e alle procedure studiate e utilizzate, non ricordava niente di quanto era successo e, soprattutto, credeva di sentire ancora i sapori, anche se quello che sentiva era dettato solo dall’aspetto esteriore del cibo che lui vedeva. Ci sembrava una soluzione perfetta: poco invasiva e ottimale per tutti. Per questo abbiamo costruito il finto studio dentistico che viene camuffato prontamente con il cantiere dopo ogni intervento che facciamo. Tutto è andato per il meglio…fino alla tua operazione.”
Il capocantiere fa una lunga pausa e mi fissa.
Io, seduto sulla poltrona da dentista e legato come un salame alla fiera degli insaccati, lo guardo per qualche secondo. Poi sposto lo sguardo sul dentista, anzi, sul Professore.
Non è possibile, penso, questo è un sogno. Siamo stati invasi dagli extraterrestri che vivono con noi da circa venti anni e io sono l’unico uomo sulla Terra che lo sa.
Per poco, dice una vocina nella mia testa, ancora per poco.
Il Professore si toglie gli occhialetti che porta e, pulendoseli con un lembo del camice, dice:
“Qualcosa è andato storto nel suo caso. Il trapianto di lingua è riuscito, come al solito, ma al risveglio lei, non solo ricordava tutto, ma percepiva anche l’assenza di sapori.”
Noto che mi dà del Lei. Come se in un'occasione del genere fosse la cosa più normale al mondo. E poi come fa a sapere che non sento più i sapori?
Il Professore fa una pausa, poi rinfilandosi gli occhiali, riprende:
“Purtroppo non possiamo permettere che lei ricordi, che lei sappia…”
Mi agito sulla sedia, ma i lacci con cui mi hanno legato sono strettissimi. Dovrei essere Houdini per riuscire a liberarmi.
“Mi dispiace”, termina con un sospiro il Professore.
Fa un cenno al capocantiere. L’uomo prende qualcosa da una mensola dietro di lui. Non riesco a vedere di cosa si tratti.
Una porta si apre e l’assistente con il sederone che fa provincia entra sorridente. Questa volta il sorriso non è solo sbagliato. Mi pare anche un po’ dispiaciuto, come se lei non volesse essere lì a fare quello che sta per fare. Mi si avvicina e mi fa una veloce iniezione nel braccio. Poi in un orecchio mi sussurra:
“Non sentirà niente.”
E come se non bastasse a convincermi, aggiunge:
“Davvero! Presto sarà tutto finito!”
Sbatto le palpebre che già sento pesanti.
Il capocantiere passa lo strumento che ha preso dalla mensola al Professore.
L’ultima cosa che vedo è il Professore che aziona lo strumento.
L’ultimo suono che sento è il rumore della motosega in azione.
L’ultima cosa che tocco è il bracciolo di pelle della poltrona.
L’ultimo odore che percepisco è quello di pelle bruciata, la mia scatola cranica che viene aperta.
E per un attimo torno a sentire anche un sapore. L'ultimo. Quello della morte.
venerdì 27 aprile 2007
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Sangue a West Hollywood - I |
di Daniel Bloom
Guardavo il calendario con quegli strani caratteri di cui ormai non ricordavo più il significato. In rosso era segnato kippur. Kippur, il giorno dell’espiazione, quale espiazione? Ormai erano diventati tutti i miei giorni un’espiazione.
Da quando ero stato buttato fuori dalla polizia con l’accusa di corruzione non me l’ero passata un granché bene, quel dannato ufficio di investigazione private non mi stava portando a niente, sempre la solita routine, mariti gelosi, figli scappati di casa, vecchie alla ricerca del loro gatto, casi da 50 dollari a botta, non ci facevi nemmeno una scopata come si deve.
Misi i piedi sul tavolo e mi allentai la cravatta già allentata, mi guardai i mocassini, avevano visto tempi migliori.
Presi il giornale ingiallito e lo aprii. Tutto già visto, la politica, la cronaca, le facce imbalsamate, le camice inamidate, i sorrisi, le pacche sulle spalle, le strette di mano vigorose di qualche candidato alle presidenziali a qualche negro compiacente. Sempre la solita storia.
Sembrava che in quella dannata città nessuno avesse più bisogno di un investigatore, erano settimane che non entrava nessuno da quella porta a vetri.
Continuavo a sfogliare distratto le pagine della cronaca quando mi fermai improvvisamente sulla fotografia di un omicidio. L’articolo parlava di Peter Landley, il nome mi risuonò in testa come un fulmine: Peter Landley, età 37 anni, era stato trovato morto in fosso vicino all’Hollywood Boulevard. L’articolo parlava di un regolamento di conti. Me lo ricordava bene Landley, il classico scagnozzo, un pesce piccolo. Tipo nervoso, quando ero ancora in polizia era uno dei miei informatori. Prima o poi avrebbe fatto quella fine. L’ultima volta che l’avevo visto era vestito di tutto punto, un po’ troppo sopra le righe per un perdente come lui. Aveva proprio l’aria di uno che si era infilato in un giro troppo grosso per il suo metro e settantacinque.
Los Angeles era piena di quei disperati che rosicchiano le briciole avvelenate dei pescecani.
Erano quasi le cinque e mezzo, i minuti passavano come ore. Mi ricordai che proprio in quel giorno cadeva l’anniversario del mio divorzio, ancora non riuscivo a non pensare Miriam, fra tutte le sconfitte che avevo accumulate in quei maledetti anni quella era la più pesante, piantato in asso dal mattino alla sera per un bellinbusto in doppiopetto dall’accento italiano.
Miriam, dolci occhi da cerbiatta, fisico esile, aria smarrita una di quelle donne da cui tenersi lontano. Lo avevo sempre saputo.
L’odore degli springrolls dal ristorante vietnamita all’angolo stava salendo, era l’ora di andarsene, anche per quest’oggi niente casi, niente dollari, niente di niente.
Mi rimisi la giacca e il cappello mi fermai un attimo a guardare fuori dalla finestra, Los Angeles, un vero immondezzaio, una discarica umana di depravati, puttane, tossici e papponi. Dio quanto odiavo questa città. Mi ci sarebbe voluta una bella vacanza.
Ero ancora fermo alla finestra quando vidi dal vetro fermarsi una cadillac davanti al portone d’ingresso. Due tipi poco raccondabili escono dallo sportello anteriore, da quello posteriore vedo uscire una donna. Neanche il tempo di realizzare che diavolo stava succedendo che sentii un' eco di tacchi dirigersi verso la porta del mio ufficio.
Quello scalpitio non prometteva niente di buono.
La porta si spalancò, una rossa con un impermiabile bianco mi si materializzò davanti.
- Boreinstain?-
Accennai un si’.
La squadrai da capo a piedi, era alta uno e settanta circa, non arrivava ai trenta, fare deciso e un brillante al dito. Poteva essere indifferentemente del Midwest come del Nord, una cosa solo era certa, aveva l’aria di essere una di quelle donne partite dal niente e arrivate in alto usando gli artigli.
- Vedo che anche lei è di poche parole, bene; il mio nome è mrs Surtron, Jennifer Surtron. La contatto perché mi ritrovi un certo oggetto che ho, diciamo, smarrito -
-…Forse ha sbagliato indirizzo questo, non è un ufficio oggetti smarriti.-
- So bene la differenza fra un ufficio oggetti smarriti e un investigatore privato.-
Mi tolsi il cappello e mi rimisi a sedere, questa volta non si trattava di vecchiette alla ricerca del gatto.
- Mr.Boreinstain, mi è stato sottratto un diario, lo devo riavere ma non voglio clamore -
- Un diario, interessante…un diario di ricette della nonna? O di poesie?-
- Questo non la riguarda…-
-Signora, trovare diari non è il mio forte e comunque la mia tariffa è di 50 bigliettoni al giorno più le spese, due giorni anticipati -
- Non è un problema -
Aprì la sua borsetta di coccodrillo e tirò fuori due biglietti da cinquanta nuovi fiammanti e li gettò sul tavolo. Quei dollari luccicanti non mi fecero una bella impressione, se c’era una cosa di cui avevo imparato a diffidare ormai da tempo erano le banconote nuove di zecca.
-…Come le ho già detto non voglio clamore, non voglio giornalisti, non voglio piedipiatti in questa storia..-
- Niente piedipiatti e ficcanaso, ok. Mi tolga una curiosità, chi le ha dato il mio nome? -
-..Forse non se ne è accorto ma il suo nome è sull’elenco ed è il primo mr Boreinstain. Devo andare mi farò risentire a breve e un consiglio… si faccia la barba -
Come era venuta se ne era andata. Rimasi nel mio ufficio ancora un po’.
Quella storia puzzava lontano un miglio, perché mai una donna come quella si era spinta fino alla periferia di L.A. per un diario smarrito? Dove aveva preso il mio nominativo?
C’era del marcio. Nella stanza era ancora presente il profumo pungente della donna.
Mi accesi una Pall Mall per riportare un po’ d’ordine. Misi i soldi in tasca. Quella sera mi sarei fatto finalmente una buona bevuta.
lunedì 23 aprile 2007
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Passione per la Pasqua |
103.3 lo ripete di continuo fra una canzone e l’altra :“Barberino, Roncobilaccio, causa incidente” Dove? Nella galleria nuova, poco sotto quell’erba dal verde tipico ed intenso della primavera che ti aspetti, germogliato con la stessa energia da una coca-cola lasciata a metà e agitata per bene.
A pranzo ovviamente le uova, il vino è compito mio, agnello, cioccolato, caffè, l’amaro: già mi immagino la lista della spesa e le crocette sempre più fitte.
“Quanto durerà?” a pensarci non si avrebbe mai fretta e quasi si commetterebbe l’azzardo di prendere il treno, malgrado tutto, passandosi sugli occhi il viaggio con i suoi tempi morti e gli intrighi.
“Parti presto così mi aiuti” pur sapendo quanto valgo in cucina: è per la compagnia? A me piace versarle del vino in un bicchiere e strategicamente porlo vicino i fornelli. Un po’ ne beve, il resto sulla carne mentre cuoce.
Il verde, dicevamo, non gli importa nulla se a pochi metri resta solo asfalto grigio, e oltre, chiuso da transenne, il bianco polveroso dei lavori per la terza corsia: procedono accompagnati dalla speranza di noi tutti… piloti del fine settimana.
Più in là si scorgono dei boschi scarmigliati e brulli attorno ad un paesino dalla forma antica e le case nuove: ogni tanto ci si distrae alla guida, ma è solo un attimo.
“Traffico intenso su tutta la rete, mezzi in coda a Pian del Voglio”.
Quando nel centro della galleria le macchine ferme tenevano ancora il motore acceso e le luci dei freni ben rosse,
quando come prima cosa le quattro frecce,
quando finalmente i piedi a terra per capire cosa succede.
“Sono arrivati i pompieri?” probabilmente sì, devono aver percorso un tratto contromano e via dritti dentro il tunnel: perché loro sanno come fare.
“Questi enormi pranzi mi uccidono” però sorrideva nel dirlo, lo capivo anche al telefono. Piace la confusione di trovarci tutti, capita sempre più di rado.
“…la colonna sonora del film che uscirà giovedì…” si potrebbe andarlo a vedere, non di sabato, troppa gente, il primo spettacolo, la passeggiata in centro col gelato in mano sotto i portici.
“E’ fumo quello?” le luci in galleria si erano spente senza rumore, mancava l’aria e se continuare a stare lì dentro… era un dubbio solo per i matti.
“Viene anche Sabrina e ci presenta il suo nuovo ragazzo, io credo sia un orso bello e buono, ‘ rozzo e peloso ’, queste le parole di Luca”.
Lasciare la macchina al suo destino ti piange un po’ il cuore, la borsa con me, non si sa mai.
“Il sedici al Palaforum di Assago, Milano, il diciotto a Roma, Stadio Olimpico, queste le uniche date italiane del tour”.
“Mi raccomando, non tardare”.
“Mi raccomando, tenete il marciapiede in fila indiana fino all’uscita”.
“Mi raccomando, seguiteci anche domani alla stessa ora su Isoradio”.
L’autostrada fa un curva prima della galleria, la macchina che arriva è sparata, l’autista si accorge solo ora di tutto, impossibile frenare in tempo, l’auto sbanda dritta sul marciapiede, la borsa vola, io pure, sopra le macchine ferme, oltre la volta, attraverso il colle bucato e il verde intenso della primavera: è andata così.
giovedì 19 aprile 2007
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V - Il Gusto della Vendetta |
Corro verso l’impalcatura dietro cui si è nascosto il finto dentista. Ma quando arrivo alla trave, lui non c’è.
Gli operai mi guardano con sospetto. In effetti mi sto comportando come un pazzo. E pazzo diventerò se non capisco cosa diavolo sta succedendo.
Mi guardo intorno alla ricerca dello strappalingue, ma non lo vedo da nessuna parte. Cerco quegli occhietti inconfondibili tra gli operai come se mi aspettassi di vedermelo lì, con l’elmetto giallo e le mani sporche di cemento.
Mi viene da piangere. Ma che sta accadendo?
“E’ ancora qui?”
La voce del capocantiere mi fa trasalire.
“Eh, sì… io…”, balbetto, ma non riesco ad aggiungere nient’altro.
L’uomo mi guarda. La sua espressione è un misto di disprezzo e antipatia.
“Venga”, mi dice alla fine, “l’accompagno io fuori dal cantiere.”
Scrollo le spalle come a dire che non c’è n’è bisogno. Anche con una lingua insensibile ho una mia dignità. Il capocantiere ignora il mio gesto, si incammina verso l’uscita e io in silenzio e a testa bassa lo seguo.
Poi ho di nuovo quella sensazione, la sensazione che due occhi mi siano puntati contro. Mi volto di scatto e lo rivedo. E’ accovacciato dietro un pilone di cemento e in quella posizione sembra che stia espletando una funzione corporale e la sua figura assume un’aria estremamente grottesca.
Questa volta non perdo tempo. Nemmeno un secondo. Mi metto a correre nella sua direzione. Lui reagisce troppo lentamente e prima che possa davvero muoversi gli sono addosso.
La tartaruga non fa niente per difendersi, sembra quasi che mi stesse aspettando.
Lo scaravento per terra e gli monto sopra sedendomi sul suo torace. Gli blocco i polsi a terra con le mani e lo osservo meglio. Così, da vicino, più che una tartaruga, sembra un’iguana. Bè, comunque sia, un rettile. Se aprisse la bocca e mostrasse una lingua biforcuta, non mi stupirei.
“Che cosa mi hai fatto?”, gli urlo contro.
La tartaruga-iguana non risponde.
“Che cosa mi hai fatto???”, ripeto ancora più forte. Sento le vene delle tempie e del collo che pulsano.
Il dentista rimane ancora in silenzio. Poi sorride, svelando una serie di denti piccoli e appuntiti.
Penso che se non passo alle maniere forti non otterrò mai niente. Gli lascio un polso e prima che possa fare qualcosa stringo il pugno per colpirlo dritto in faccia. Quando sto per sferrare il colpo, sento una mano che mi serra il polso con una stretta fortissima.
Mi volto e vedo il capocantiere dietro che mi blocca il braccio.
“Mi lasci”, gli dico, “lei non capisce…quest’uomo…”
Non termino la frase perché il capocantiere, aiutato da altre quattro braccia, mi solleva e mi sbatte per terra liberando il dentista. Finisco disteso accanto all’uomo tartaruga.
Faccio per aprire di nuovo la bocca per spiegare il malinteso, ma il capocantiere parla prima:
“Se ne vada di qui!”
Lo guardo, poi guardo gli operai che l’hanno aiutato e infine mi giro verso il dentista. Si sta rialzando e si spolvera la giacca sporca di terra e cemento.
“Voi dovete aiutarmi!”, li supplico. E indicando il dentista aggiungo:
“Quest’uomo è un pazzo. Mi ha drogato e mi ha…”, mi fermo esitante, poi tutto d’un fiato lo dico: “ mi ha strappato la lingua e me ne ha impiantata un’altra, e ora non sento più alcun sapore.”
Il capocantiere mi fissa. L’espressione è sempre la stessa: disprezzo e antipatia. Poi scambia un fugace sguardo con il dentista e infine dice:
“Ragazzo, tu non devi stare bene… adesso…”
“Voi non capite”, lo interrompo, “ io…”
Il dentista parla per la prima volta:
“NO, TU non capisci…”
Fa un cenno agli operai e questi mi afferrano e mi sollevano prendendomi per le braccia.
“Ma cosa…”
“Portatelo in sala operatoria. Voglio terminare l’intervento prima di sera.”
I due operai mi trascinano via e mentre cerco di divincolarmi inutilmente, sento il capocantiere che dice all’uomo tartaruga:
“Professore, ma perché con lui non ha funzionato?”
Non riesco a sentire la risposta e, forse, è meglio così.
giovedì 12 aprile 2007
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IV - Sapore di Male |
“Le papille gustative sono piccole strutture neuroepiteliali situate sulla superficie superiore della lingua, nell'alta laringe e nella parte posteriore dell'orofaringe; la loro funzione fondamentale consiste nel percepire i sapori dei cibi ingeriti. Ciò avviene soltanto nel momento in cui le sostanze che compongono gli alimenti si trovano in soluzione acquosa nella saliva e possono perciò facilmente raggiungere le papille: questa è la motivazione per la quale sentiamo maggiormente il sapore di ciò che ‘si scioglie in bocca‘, come ad esempio il cioccolato fondente, rispetto a quello dei cibi che restano solidi nel tratto orale del tubo digerente.”
Leggo e rileggo la definizione di Wikipedia e nel frattempo provo a infilarmi in bocca un pezzo di cioccolata fondente. Ma io, quel sapore di ciò che si scioglie in bocca proprio non lo sento. Non mi faccio ancora una ragione di quello che è successo.
Sono scappato dal bar lasciando Fabio e Luca interedetti. Luca mi ha chiamato al telefono poco fa e mi ha ricoperto di epiteti che farebbero rabbrividire lo scaricatore di porto più sboccato.
Ha ragione, mi sono comportato come un pazzo furioso, ma vorrei vedere lui al mio posto. Cosa farebbe Luca se gli avessero strappato la lingua con un paio di tenaglie, gliene avessero impiantata una nuova e si accorgesse che le papille gustative ereditate da chi sa chi non hanno la minima sensibilità.
Chiudo Internet, spengo il computer e rimango per un attimo di fronte allo schermo spento. Poi decido che è giunta l’ora di fare una bella chiacchierata con l’uomo tartaruga.
Prima di uscire faccio un ultimo tentativo: mi infilo in bocca una caramella che trovo molto invitante unicamente per la carta variopinta che la contiene. Potrebbe avere il sapore del pesce avariato e io non batterei ciglio.
Esco per strada, la sputo distrattamente per terra, prendo la bici e comincio a pedalare alla volta del palazzo del dentista. Nel frattempo penso che non sceglierò mai più un qualsiasi medico puntando l’indice a casaccio nelle pagine gialle.
Quando arrivo all’edificio del dentista, capisco che c’è qualcosa che non va. I muratori che stanno ristrutturando l’edificio non c’erano poco prima. Guardo meglio il numero civico: è quello giusto. Mi volto a guardare il negozio di fiori, punto di riferimento più che sicuro. Quello c’è sempre, compreso il fioraio che mi ha mandato a fanculo poche ore fa, quando sono uscito con una lingua nuova. Ma di fronte al negozio, il palazzo del dentista ha lasciato il posto a un cantiere dove operai marocchini e albanesi stanno lavorando operosamente come formichine.
Scendo dalla bici e la parcheggio legandola a un palo. Poi cammino spedito verso quello che mi pare essere l’unico italiano, probabilmente il capocantiere.
“Scusi?”
L’uomo mi squadra dall’alto in basso come fossi un alieno.
“Sì?”
“Io cercavo lo studio del dottor Santoni”.
L’uomo mi guarda sempre più stranito.
“E perché lo chiede a me?”
Esito. Effettivamente…
“No, sa, lo studio del dottore è proprio in questo palazzo. Ero qui un paio d’ore fa e tutto ‘sto affare non c’era”, dico indicando con la testa il cantiere.
L’uomo continua a fissarmi come fossi pazzo:
“Guardi che è due settimane che noi lavoriamo qui. Penso che si sbagli con un altro edificio.”
Mi sto sbagliando? Mi guardo di nuovo intorno. No, sono nel posto giusto. Tutto questo prima non c’era.
“Porcatroia, Roberti, vuole portarmi quei preventivi del cazzo prima che faccia notte?”
La voce di un uomo in giacca e cravatta, telefonino all’orecchio. Il capo.
“Subito, ingegnere.”
Il capocantiere mi dà un ultimo sguardo e bofonchia:
“Arrivederci”
Io lo sto per fermare, poi la mia attenzione viene attirata dall’ingegnere. Assomiglia a mio padre. Per un attimo penso addirittura che sia lui.
Poi mi scuoto, do un’altra occhiata al cantiere e sto per andarmene sconfitto quando di nuovo la mia attenzione viene attirata da qualcosa. No, da qualcuno. Qualcuno che mi sta fissando da dietro la costruzione di assi e travi issata per ristrutturare l’edificio.
L’uomo si nasconde velocemente, ma non abbastanza: riconoscerei quegli occhi di tartaruga ovunque.
venerdì 6 aprile 2007
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Secondo |
di Alice
Non abitava tanto lontano da casa nostra, la mia “cara nonnina” , le piaceva molto se le dicevo così: dopotutto ero l’unico nipote maschio che aveva.
Lei ascoltava tutte le volte attentamente quello che le raccontavo e mi rispondeva, sempre. È forte mia nonna.
Non so proprio da chi abbia preso mio padre per essere così diverso da sua madre e limitato nei propri pensieri.
Aprii il cancelletto del giardino che portava sul retro della casa. Non sono mai entrato dalla porta principale della casa di nonna, anzi penso proprio di non averla mai vista aperta quella porta.
La trovai in giardino con l’annaffiatoio in mano a parlare con le sue piante e con la vecchia Lulù che le girava tra le gambe: ‘un giorno o l’altro la farà inciampare’ pensai.
“Ciao nonna!”
“Ciao amore. Mi aiuti per favore, mi riempi quest’affare” mi disse spingendo l’annaffiatoio verso di me. “Vuoi un pezzo di torta?” continuò “L’ho fatta questa mattina, ma penso sia ancora buona, poi ci metti la cioccolata ed è perfetta!”. Senza aspettare la risposta salì a fatica le scale ed entrò in casa lasciando la porta aperta.
Mi toccò finire di annaffiarle le piante. Poi con la gatta in collo salii anche io.
Indaffarata in cucina non la si vedeva, tutta curva sui fornelli e quasi più bassa del tavolo.
Mi misi a sedere su una sedia e presi a guardarmi intorno con la Lulù che faceva le fusa sulle mie ginocchia.
Guai se tentavi di aiutare mia nonna se non era lei a chiedertelo espressamente, si girava ad aggredirti come un cane affamato a cui tenti di toccare la ciotola.
La nonna venne verso di me con un piattino ed una bottiglietta di succo di frutta e me li mise davanti. Andò a sedersi sulla poltrona dietro le mie spalle e prese i gomitoli di lana per cominciare l’ennesimo lavoro a maglia da conservare con tutti gli altri negli armadi: per chi, non ne ho idea.
Restammo in silenzio finché non ebbi finito di ingurgitare tutto. Ero uscito di corsa da casa senza finire di cenare e quel pezzetto di torta mi tirò su di morale.
“Nonna resto qui a dormire stanotte. Ok?”
“Certo amore.”
Lei non faceva mai domande, si limitava ad acconsentire a tutto quello che io le dicevo. Solo io, perché con mio padre non facevano altro che discutere. ‘Quell’uomo è odioso’ pensai, nemmeno con sua madre riesce ad andare d’accordo.
“Daresti da mangiare al gatto, amore.” mi chiese.
In modo automatico mi alzai, portai la Lulù davanti alla sua ciotola e la riempii di pezzetti di pollo che mia nonna cucinava a posta per la vecchia gatta, poi tornai a sedermi.
“Ho discusso con tuo figlio” cominciai a parlare “non lo sopporto più, non fa altro che sgridarmi per qualsiasi cosa. Nonna non ce la faccio davvero più! Non posso vivere come lui che ha cinquan’anni: lavoro – casa e casa – lavoro. Per chi mi ha preso! E poi sempre con questa storia dello studio: ‘devi studiare’ solo questo sa dirmi e vuol sempre avere ragione lui. Poi ci si mette anche quella gallina della mamma ad incoraggiarlo. Mi urlavano tutti e due contro. Ho preso e sono uscito.”
Mia nonna restò impassibile, continuando a muovere i ferri e la lana talmente veloce che avrebbe potuto rifornire un negozio di vestiti in poche ore. A pensarci bene il mio discorso non era per niente chiaro, non sarei riuscito nemmeno io a capirlo se non fossi stato io stesso il protagonista di tutta la faccenda.
All’improvviso si alzò ed andò verso la vecchia camera di papà, la gatta dietro come un segugio.
Sentii un arruffio di sportelli che si aprivano, sacchetti di plastica scartati e poi di nuovo i passi di mia nonna che tornavano in sala.
Venne verso di me con un foglio e me lo porse.
Erano i risultati degli esami di papà che era solito appuntarsi tutto dopo ogni esame, quando era giovane come me.
“Perfetti. Come tutto quello che fai lui” commentai con una punta di rabbia.
La nonna si rimise sulla poltrona e riprese il lavoro a maglia.
“Amore, non devi pensare di dover imitarlo in tutto e per tutto. Devi essere te stesso e trovare la tua strada. E poi giralo, quel foglio.”
Sul retro vidi tanti scarabocchi e altri voti, ma.. ma non è possibile, pensai. Erano voti bassi, non da mio padre.
“Non tutti riusciamo al primo tentativo” concluse lei, sorridendo.
“Grazie” le dissi. Mi alzai e le stampai un bacione sulla guancia. Ero certamente il suo nipote preferito, ne sono sicuro.
Tornai in giardino e mi misi sul dondolo, volevo stare un po’ da solo, in pace e in silenzio. Lulù mi seguì e si accoccolò accanto a me.
In casa vidi che la nonna si era alzata, ma questa volta per andare al telefono.
Non riuscivo a capire molto bene cosa combinava, ma pensai che stesse chiamando casa mia.
Infatti. Cominciò ad urlare alla cornetta, dato il suo udito finissimo: “Carlo, sono la mamma. Non ti preoccupare. Si si, è qui. Stai tranquillo, dorme da me stanotte. Ciao”. Spero che mio padre non abbia urlato troppo a telefono, quando si trattava di me, sapere essere una vera bestia.
“Io vado a dormire” mi disse la nonna “Te fai pure con calma, ricordati però di chiudere bene la porta quando rientri. Buona notte amore.” La luce si accese nelle scale interne e poi al piano superiore.
Alzando gli occhi al cielo vidi molte stelle e qualche nuvola. Intorno a me c’era un silenzio quasi tombale, interrotto ogni tanto dal rumore delle macchine che passavano.
Non so quanto tempo restai fermo, sdraiato, fissando il vuoto. Tutto era buio ad eccezione del lampione centrale del giardino.
Pensavo alla mia vita.
‘Più di due terzi da vivere, se mi va bene. Però ancora molti anni da sopportare mio padre. Mi dispiace per la nonna, chissà quanto resterà ancora con noi. Non voglio che mi lasci da solo. Caterina.’ L’immagine di lei nella testa mi risvegliò di colpo.
Me la vidi davanti, mi squadrava con occhi cattivi pieni di delusione.
‘Sarebbe finita così tra noi due tra qualche anno, non sono alla sua altezza’, mi interrogai. ‘Non voglio pensarci ora’. Mi scrollai di testa i brutti pensieri e tornai con la mente alla prima volta che la vidi.
Lei, accanto a quell’essere spregevole che diceva di esser mio amico solo per mostrasi migliore di me, aveva un vestito fantastico che lasciava spazio a tutte le immaginazioni, i capelli raccolti ed un sorriso da favola.
Gessica, Ilaria e Camilla stavano dando sfogo a tutto il loro vocabolario di volgarità contro Andrea e Caterina, ma soprattutto Andrea.
“Stronzo” fu l’ultimo commento di Camilla che sentii, mentre le amiche continuavano ad incitarla. La poverina era una delle tante vittime del ‘bastardo infame’, così lo definivano.
Noi ragazzi zitti. Eravamo tutti intorno al tavolo del pub a discutere di non mi ricordo quale calciatore comprato per un botto di soldi e che non era ancora riuscito a fare un goal.
Non facevamo mai caso ai discorsi delle donne del gruppo, ma ci eravamo zittiti notando la compagna di quella sera di Andrea, dato che entrando nel locale aveva fatto di tutto per farci voltare verso di lui.
“Non ci posso credere” disse Lorenzo “una diversa ogni sera. Ma come fa!”.
“E poi tutte da calendario” assentì Iuri.
“Mi raccomando, attendi a non sbavare” ringhiò Gessica voltandosi verso di noi con tutta la rabbia che aveva in corpo. In effetti non penso che nessun ragazzo l’abbia mai guardata come ci girammo noi a fissare Caterina quella sera. Che la natura non sia stata buona con lei ce ne eravamo accorti, ma povera Gessica, anche il suo carattere da acida zitella non l’aiutava.
“Ragazzi basta, ha ragione la nostra Gessica. Quella da uno di noi non si farebbe nemmeno pulire le scarpe.” Iniziò Fabio “Andrea ha un suo charme che nessuno di noi può raggiungere”. Gli piaceva troppo essere l’egocentrico del gruppo, pensai io.
“E nemmeno il suo bottino” concluse Iuri, ironizzando su tutti i soldi della famiglia di Andrea.
“Troppo snob” fu l’unico mio commento, tra un sorso di birra e l’altro.
A pensarci meglio quella sera non guardai bene Caterina. Mi voltai solo per osservare il suo aspetto, sopraffatto dall’istinto di uomo che era in me quando nelle vicinanze vagava una ragazza con un mini vestitino come il suo.
Chissà dove l’avrà ficcato poi, pensai, mentre la Lulù si stirava e si riappallottova non riuscendo a trovare una posizione sul dondolo. Da quando stiamo insieme ha fatto sparire ogni abito che la mettesse in mostra, o almeno quando è con me non li indossa.
Quella sera, al pub, Caterina non si voltò nemmeno verso di noi. Me la ricordo a braccetto di Andrea, e poi di fianco a lui al bancone, mentre si faceva offrire da bere e rideva a crepapelle.
Che fosse davvero così simpatico Andrea, non l’avrei mai detto. All’università sapeva essere odioso in tutto.
“Ma con le ragazze ci sa fare” mi disse Iuri, riconoscendo l’odio che stavo provando verso il nemico, ma attirando su di sè sguardi di ira di Camilla, Ilaria e Gessica.
Quando per Andrea e la sua affascinante accompagnatrice giunse il momento di andarsene io e il mio gruppo di amici eravamo tornati a parlare d’altro. Lui però ci venne in contro con il solito sorriso idiota - che mantiene tuttora - “Ciao ragazzi, com’è? Vi presento Caterina” Lo disse con un tono di sufficienza che aumentò il rancore di tutti. Ci presentammo uno ad uno; solo Camilla scoppiò a piangere e non disse il suo nome, ma si rintanò tra le braccia della amica.
“Piacere” disse Caterina. La sua voce era dolce e simpatica: chi l’avrebbe mai detto. Continuava ancora a sorridere a fianco di Andrea e non era affatto imbarazzata davanti al nostro gruppo.
“Noi ce ne andiamo per stasera. Ciao belli.” disse Andrea beffardo. E prendendo nuovamente Caterina a braccetto la condusse fuori dal locale. In sottofondo il pianto di Camilla che si faceva sempre più lagnoso.
Che strano pensai alzandomi dal dondolo e tornando con la mente al presente, perché questo ricordo ora.
Presi la gatta in collo e la portai in camera con me. L’appoggiai sul letto che la nonna aveva preparato in non so quanti secondi e mi ci infilai, levandomi solo le scarpe.
mercoledì 4 aprile 2007
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Una vita che sono due - III |
La donna ha in testa un cappello bizzarro colore verde mela con fiori di carta velina coloratissimi ben sistemati sulla larga tesa. I capelli bianchi, composti in una lunga treccia, le ricadono su una spalla
Indossa un vestito blu notte di raso, lungo fino alle caviglie, i polsini e la cintura dello stesso colore del cappello. Scarpe in camoscio, rosa, a punta tonda e tacco a rocchetto
Infine, sulle spalle, meraviglia delle meraviglie: un mantello enorme di stoffa pesante - di quella che cade bene. Il colore, cangiante, tra il viola e il fucsia con la fodera bianco latte
Alle mani porta un paio di guanti leggerissimi colore albicocca. All’anulare sinistro una fascia d’argento con una pietra minuscola incastonata al centro
La posizione è eretta e al contempo rilassata. Le braccia abbandonate lungo i braccioli della sedia, il volto sereno. Solo gli occhi si muovono, ad un ritmo costante, coprendo avanti e indietro la breve distanza tra il mignolo ed il pollice della mano sinistra che tiene appena sollevata col il palmo rivolto verso di sé
Pare che stia leggendo un libro. Anzi, indubbiamente, sta leggendo un libro. Ma… un libro non c’è!
“Buongiorno” dice la donna senza alzare gli occhi dalla lettura. Mi prende un po’ alla sprovvista “Buongiorno” rispondo “interessante la sua bancarella…”
“ Sono contenta che le piaccia”
“ Ma di preciso che cosa… non so come dirlo, forse le sembrerò sciocca… cioè, mi piacerebbe sapere…” forse meglio non insistere “ scusi forse la sto disturbando…”
“No non disturba affatto, vendo ciò che vede?
“Beh, sinceramente non vedo niente”
“ Certo, i sogni non si vedono quando si è svegli”
“Vuole dire che lei vende sogni? veri?”
La donna alza lentamente la testa, la piega leggermente di lato, mi guarda e risponde “esattamente” . Mi invita a sedermi, mi sistemo su uno scalino di pietra. Le faccio una specie di interrogatorio riguardo al suo strano lavoro, lei risponde con spiegazioni precise e dettagliate
“Ma lei, i sogni, in che modo li vende?”
“Vendere non è il termine esatto. Diciamo che li regalo”
“Intende dire che non vuole niente in cambio?”
“Soltanto una cosa: che mi siano raccontati. Scommetto che lei è una di quelle persone che sognano molto. Ho indovinato? ”
“ Si. Purtroppo non ciò che vorrei. Soprattutto, negli ultimi anni. E’ come se si fosse cancellata una buona parte della memoria. I sogni sono confusi e al mattino non mi ricordo più nulla… è un po’ lo stesso anche per la realtà: non ho molti ricordi. Sarà la vecchiaia, oppure…”
“Oppure sofferenze che la mente tenta di soffocare. Succede. Anche io sognavo tanto… un tempo. Poi un giorno è tutto finito. Buio completo. Niente più sogni”
“ Oh, mi dispiace, davvero ”
“Beh! non è il caso di rattristarsi…” fa un gesto largo con il braccio, la mano rivolta al banco, sorride: “come vede mi sono organizzata”
“ Allora veniamo agli affari” dico “voglio comprare uno dei sui sogni… Cosa devo fare?”
“Semplice. Scelga tra gli oggetti in mostra quello che più le piace, lo tenga tra le mani e… il gioco è fatto. Ogni oggetto conduce in un sogno. Possono essere sogni fantastici o incubi terribili ma non si può sapere fino a quando non ci si è dentro. Una cosa è certa: in ogni sogno, bello o brutto che sia, è celato un messaggio inviato direttamente dall’inconscio. A volte è di facile lettura, altre un po’ meno e allora bisogna impegnarsi un po’ per capire”
Forse è matta, penso. Sto per chiedere quali oggetti, visto che la bancarella è vuota, ma lei mi precede: apre una piccola cassapanca che ha vicino alle gambe: “Ecco, scelga”
Quella che sembrava una piccola cassapanca in realtà era un pozzo senza fondo! allungo il collo per sbirciare all’interno
“ Quelle “ dico indicando un piccolo paio di scarpe nere di vernice lucida, con un laccetto fermato da un bottoncino bianco di madreperla
La donna le prende con delicatezza e le consegna nelle mie mani …
Le scarpette della festa
Ho cinque forse sei anni. Sono in una casa che mi è familiare ma non è la mia. Quartiere popolare, casette a tre piani, squadrate, un po’ tristi
Una camera. Tanta gente
Un uomo dorme, tutto vestito, sul letto rifatto. Lo conosco, è Emilio, un vecchietto buono con la barba bianca, un amico di famiglia
Perché sono qui ? E’ un ricordo che dopo tanti anni riemerge… oppure uno dei tanti sogni che animano le mie notti?
Quel letto, lui con le mani incrociate sopra la pancia, tutto vestito di nero. E com’è strano il colore della pelle del suo viso, non lo avevo mai visto un colore così
Ho paura ma non capisco bene di cosa. Che c'è da aver paura? E’ Emilio...
Sarà per questo strano e pesante silenzio che riempie la stanza e tutta la casa
Sono in piedi, in un angolo della camera, immobile con le gambe incrociate, le mani dietro la schiena e le dita attorcigliate
Mi scappa la pipi ma non so come dirlo: mi sembra brutto in questo momento
Mia nonna stamani mi ha vestita a festa, ricordo di essere uscita da casa saltellando e canticchiando, felice. Mi sentivo bellissima con le mie scarpette nere di vernice, la mia gonna a ruota e il cappotto bianco di lana morbida con la pelliccia sul colletto e sulle maniche, stretto alla vita da una cintura
Che strana… tutta questa penombra. E poi, perché Emilio sta così immobile? E chissà perché le voci della gente sono un bisbiglio
Ma certo!!! che stupida! Tutti parlano in silenzio per non svegliarlo. Sssssccc… sta dormendo.
Buffo però, non si muove per niente. Certo che è bravo a stare così fermo…
La pipì mi scappa forte “non ci devo pensare non ci devo pensare…” dentro la testa ripeto la mia canzone preferita: “volevo un gatto nero, nero, nero… tu me lo hai dato bianco e con te non gioco più…” Funziona!
Guardo verso la finestra… SBARABAAAMMM ! il vento la spalanca con una spinta e la porta della camera sbatte forte facendo un grande rumore
Mi giro di scatto verso il letto, penso: “ecco, ora si sveglia. Per forza” mi aspetto che apra gli occhi ma questi restano chiusi
Sento un brivido, ho freddo, solo ora mi accorgo che è la stanza ad essere gelata
Inizio a dondolare su me stessa. Stringo le gambe. Cerco di dare un senso a tutto ciò che mi sta intorno ma è troppo difficile
Inaspettatamente le mie gambe si muovono, mi portano verso il letto
Mi avvicino all’uomo disteso, ho la tentazione di tirargli la barba, come ho fatto tante volte, invece sono attratta dalle sue mani. Allungo lentamente il braccio e appoggio una mano sulle sue
Provo una sensazione spiacevolissima: quelle mani non erano più calde e morbide ma fredde e rigide come quelle di una statua di marmo. E proprio come una statua resto: rigida
Sembra il gioco delle belle statuine, tutto si ferma, per un tempo che sembra infinito. Poi… un due tre, stella! sento un urlo agghiacciante, disperato, interminabile. E’ la mia voce, sono io ad urlare, ma gli altri non sembrano udire, sono forse sordi!!!!
Mi rendo conto, allora, che l'urlo non è uscito veramente, è rimasto dentro. Comincio a capire tutto il mio disagio e la mia paura: era quella la morte! ed io l’avevo toccata
Mi sveglio
E’ tutto finito, eppure…
“Ancora oggi non riesco a liberare quel grido che è rimasto prigioniero dell'anima. Ancora oggi non riesco a dimenticare il calore umido che sgorgava dal mezzo delle mie cosce e colava giù, fino a formare un piccolo laghetto intorno ai miei piedi, inzuppando le mie scarpette della festa”
martedì 3 aprile 2007
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Per non saper né leggere né scrivere - Le nove porte |
di Enzo Fileno Carabba
C’è chi pensa poco e chi non pensa affatto. Ma esiste una terza via: pensare raccontando.
È una via antichissima. A prima vista sembra facile. Ma è un’illusione. In questo mondo sovrailluminato e superaccessoriato, dove tutto sembra a portata di mano, a disposizione, questa via può diventare impossibile perfino imboccarla. Ci sono nove porte invisibili da varcare.
La prima è riuscire a vedere le cose. Le persone per lo più vedono le cose nella loro testa, le vedono automaticamente, senza più bisogno di guardare. Ma quel tipo di sguardo si acceca quando dalla testa si tenta di travasarlo nelle parole
La seconda è riuscire a scivolare dentro a se stessi fino a scrivere cose che non si pensava di poter scrivere. Credo che questo accada soprattutto quando si raggiungono ricordi dimenticati.
La terza è uscire da se stessi, come degli sciamani, smettere ogni tanto di dire io, per entrare in teste lontanissime.
La quarta è costruire una storia non solo partendo da frasi che ci paiono belle e intelligenti, ma anche da frasi brutte e stupide. Che però – magari – messe insieme fanno il miracolo.
La quinta è compendere che la scrittura può partire come uno sfogo, ma poi deve diventare una architettura con un inizio, un centro e una fine.
La sesta è che il tono di voce del narratore è forse l’invenzione decisiva. Dal tono, che aleggia sulle acque delle parole, nasce il mondo.
La settima è cercare di non capire troppo. La maggior parte delle persone quando iniziano a scrivere “sanno troppo” e trasmettono questa consapevolezza ai loro personaggi fino a soffocarli.
L’ottava è il valore sella svagatezza.
L’ultima porta è quella del valore più alto: la speranza. Perché alla fine ognuno scrive come gli pare, per fortuna, e questo sgretola le porta precedenti.
domenica 1 aprile 2007
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Una vita che sono due - II |
“Chi, io?” rispondo. Ride “Beh! è con te che sto parlando, no?”. Penso che ride bene, troppo bene. “Mi chiamo Ada” rispondo . “Bel nome, affascinante”. Penso che forse mi prende in giro, penso che forse è meglio che mi muova… Invece resto lì e gli chiedo “E te, come ti chiami?”. “A te che nome piace?” continua a sorridere, penso che forse c’ha una paresi. “Ferruccio...” rispondo “Secondo me ti starebbe bene”. “Aggiudicato. E ti andrebbe di prendere un caffè con me?” . Penso che un caffè con lui lo prenderei molto volentieri, penso che non ci sarebbe niente di male, penso che l’amicizia non ha età, penso che… “Allora?… hai deciso?”. Solo ora mi accorgo che ha gli occhi verdi e magnetici, solo ora mi accorgo che non mi guarda come si guarda una zia, solo ora mi accorgo che forse non è così piccolo da poter essere mio figlio. Solo ora mi rendo conto che è meglio darsela a gambe. Stacco, non senza difficoltà, lo sguardo da quei due smeraldi che sono i suoi occhi, il sangue riprende a circolare, il respiro torna regolare. Mi tocco il polso sinistro e faccio finta di guardare l’orologio che non ho: “… purtroppo devo andare, sarà per un’altra volta”. Mi porge la mano piena di anelli , “ok , se ci ripensi io sono qui”. Stringo quella mano magra, fresca e asciutta, sorrido, dico “ok” e poi, via! ! più veloce della luce.
Sono già in fondo alla piazza, ai piedi della scalinata della chiesa dove ci sono le bancarelle del ferro battuto e degli orologi d’epoca, le ultime del mercatino
Stop… fine della corsa.
Di tornare a casa non mi va, vado verso l’ingresso della chiesa e qualcosa attira la mia attenzione: accoccolata come in una nicchia, tra l’ingresso secondario della chiesa e il muro di pietra, una nuova bancarella, mai vista prima.
E’ l’unica, in tutto il mercato, a non avere intorno clienti o curiosi, tutti passano davanti e proseguono, come se neanche la vedessero
Il banco, che dovrebbe servire da piano per la merce, è completamente sgombro
Dietro al banco della merce che non c’è, seduta su una sedia rivestita con velluto rosso fuoco con due braccioli di legno dorato, una donna. Non riesco a collocarla in una età precisa: può avere dai 30 ai 60anni. Che strano, con grande meraviglia mi accorgo che, dipende molto dal punto di osservazione. Ne resto affascinata e, quasi morbosamente, inizio ad osservarla nei minimi particolari…