"La questione è involontariamente, quanto magistralmente posta nelle parole di un autore dalla composita esperienza letteraria, Daniel Pennac. *Alessandro Perissinotto, Gli attrezzi del narratore, BUR - Holden Maps"Per ovvio che sia, conviene dunque ribadire che una buona narrazione si basa su un equilibrio delicato tra le sezioni funzionali (quelle dove «accade qualcosa») e le sezioni referenziali (quelle che fanno da «contorno», da «sfondo» e da «approfondimento» dei fatti): far pendere la bilancia in maniera troppo marcata dalla parte della funzionalità significa […] costruire dei semplici elenchi di fatti privi di giustificazioni sociali e psicologiche (un po' come avviene nei peggiori film d'azione); al contrario, puntando tutto sulla referenzialità e riducendo al minimo gli eventi trasformativi, quelli che fanno «cambiare qualche cosa», si corre il rischio di una insostenibile lentezza. Ciò non significa affatto che tutte le storie dal ritmo narrativo incalzante siano aride elencazioni, né che un romanzo dove gli accadimenti siano scarsi sia necessariamente noioso; è solo che più ci si avvicina agli estremi e più è necessario il talento del grande scrittore per gestire una situazione potenzialmente pericolosa.
Un'ultima citazione, sempre dalla stessa fonte. Si riferisce al ruolo chiave dei personaggi nel dare originalità alla narrazione:
[…]
Non bisogna essere troppo rigidi in queste categorizzazioni: nelle telenovelas e nelle soap opera (corrispettivi audiovisivi del romanzo popolare) non capita nulla per intere puntate e tutto è giocato sugli stati d'animo dei personaggi, così i libri d'amore della collezione Harmony o Bluemoon, ma anche i grandi romanzi popolari tradizionali (da Dumas a Carolina Invernizio), sono ricchissimi di minuziose descrizioni, sono fitti di informanti. Tutto ciò, se da un lato smentisce l'equazione «funzionale = popolare», dall'altro conferma la possibilità, per un testo funzionale opportunamente concepito, di essere fruito senza bisogno di un profondo lavoro interpretativo."
[A proposito di Guerra e Pace]
«Di cosa parla? »
«È la storia di una ragazza che ama un tizio e poi si sposa un terzo.»
Quante altre storie potrebbero essere descritte con queste parole? In quante decine o centinaia di romanzi c'è una ragazza che ama un tizio e ne sposa un terzo? Inventare una vicenda dove una ragazza ama un uomo, ma poi ne sposa un altro non richiede alcuno sforzo, alcuna capacità.
Quello che richiede talento è rendere credibile quella storia così costruita e vista; e la credibilità nasce proprio dalla caratterizzazione dei personaggi, dallo smisurato numero di variazioni sul tema che si possono effettuare lavorando sulla fisiononima del personaggio, sui motivi per cui prende certe decisioni, sul modo in cui vive gli eventi, sulle implicazioni sociali dei suoi comportamenti.
domenica 26 novembre 2006
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Funzionalità e referenzialità nella narrazione |
martedì 21 novembre 2006
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Aiutami Cap. 1 |
Lucia guardò le prime gocce di pioggia dalla finestra di cucina stringendosi nella copertina di pile.
Tirando su col naso andò nella sua stanza a cercare un nastro per legare i capelli lisci e sporchi che le ricadevano sul viso, ma non trovava più le sue cose, qualcuno doveva averle spostate.
Oddio che mal di testa.
Dev'essere l'autunno che mi mette tristezza, ho tanta voglia di piangere.
Mi sento così sola, ho bisogno di parlare... sentiamo la Gianna, mi tira sempre su.
Però sono le dieci, è tardi, non si può chiamare in casa della gente a quest'ora.
"Scusa so che è tardissimo... non avrei dovuto telefonare... ti disturbo?"
"Ma no, stavo guardando un telefilm. Che c'è, che è successo, stai bene?"
"No niente... ero qui... sai Giorgio è a Londra e... sì, insomma ero qui da sola... mi è presa un po' di tristezza, sai..."
Gli occhi di Gianna vagarono alla ricerca del posacenere.
Dove cavolo è, oddio saranno mica tutti nella lavastoviglie?
Porca miseria ma qui piove!
"Oh hai visto: piove!!!"
"Eh già davvero, che tristezza, è proprio..."
"Scusa levo i panni e ti richiamo. Va bene?"
"Sì sì figurati... tanto son qui... dove vuoi che vada ciao ciao..."
"A dopo."
Gianna cominciò a togliere caoticamente dal filo calzini, mutande e magliette e pensò a come si sarebbe potuta vestire l'indomani.
C'era qualcosa di sadico nella scientificità con cui Teodora metteva le riunioni più rognose proprio di lunedì mattina.
E poi arriverà già incazzata e mi subisserà come sempre di domande stupide che rivelano quanto poco capisca del lavoro dei suoi subordinati.
Non ci devo pensare ora, no, tanto non serve.
Ecco lo sapevo: tanto per cambiare mi è cascata di sotto una calza di quelle buone e siamo nei sei mesi che l'omino del seminterrato vive in barca, accident'a' poeri.
E io domani che mi metto allora? Il tailleur pantalone gessato... no: fa troppo donna manager aggressiva che ha messo da parte la sua femminilità in nome di una carriera che, detto tra parentesi, non decolla. E alla riunione c'è anche quel tòcco del Liberati quindi la calzettina con la gonna ci stava parecchio bene.
Accidenti a quella cazzo di Teodora!
"Ehi Gianna ci sei?"
"Oh ciao scusa è che mi è cascata della roba di sotto mentre levavo i panni"
"Oddio allora ti disturbo, vabbè dai ti richiamo..."
"No Lucia dai, dimmi. Come stai, va un po' meglio?"
"Senti stamani mi pareva di stare bene, mi sono svegliata verso le nove, poi ero indecisa se andare in palestra perché..."
Miseria cane: il posacenere!!! Se non fumo scoppio.
La Lucia mi fonde il cervello. Poverina, certo con tutto quello che le è capitato... le devo stare vicino ma mi fa due palle così.
"... poi dovevo andare a pranzo dai miei ma ho saputo che c'erano anche la Claudia e Marco con il bambino, e io dopo quello che è successo proprio non me la sento..."
E vabbè butterò la cenere nel sottovaso. Sennò mi potrei mettere i pantaloni da cavallerizza con gli stivali sopra. Giacca? Sì, giacca. Dove sarà la borsa che fa pendant, vediamo un po'.
"... verso le tre ha chiamato Giorgio ma non si sentiva niente, un casino, era per la strada. Certo che poteva chiamare più tardi dall'albergo no? Gliel'ho detto sì, però dice che stasera aveva quell'incontro e doveva spengere il telefono, poi non sapeva se faceva tardi..."
Povera crista. Questo sta a fargli un mazzo di corna... e quel che è peggio un po' lo capisco.
Gianna abbandonò la missione borsa pendant e si buttò sul divano con le migliori intenzioni.
Mentre aspirava il fumo con intensità il suo sguardo correva lungo le pareti della casa da single arredata con passione e gusto.
Mise il volume a zero cercando di riconfluire nel fiume di parole di Lucia.
Per concentrarsi meglio chiuse gli occhi e pensò a quanto si sentiva fortunata.
***
"Poi ti volevo dire, la settimana prossima Giorgio torna per qualche giorno in Italia, ha degli esami, delle cose, non ho capito bene, insomma volevo fare una cena, anche con Ivana e Fabio, te sei libera diciamo... giovedì o venerdì?"
"Beh... giovedì ho il corso che mi finisce tardi, venerdì non so... ma sei sicura di non strapazzarti troppo? Tutta questa gente..."
"Senti Gianna, se ti dico che ho voglia di fare una cena la potrò fare? Possibile che stiate tutti a dirmi cos'è meglio per me? Pensi che non sia in grado di fare un piatto di pastasciutta?"
"Lucia, io..."
"Pensi di essere tu, l'unica, irripetibile e perfetta padrona di casa, regina del soufflè, principessa del brillantante, sempre calma e prodiga di consigli come un fottuto grillo parlante?"
"Lucia, ora basta."
"No non basta, perché ne ho le palle piene di te, tuo fratello e della vostra sicurezza del cazzo. Solo voi siete bravi. Sì. Solo voi. Cosa ne vuoi sapere te poi... con la tua casina perfettina, i tuoi aggeggini e le tue manie da zitella. Troppo comodo così.
Non lo sai te cosa vuol dire. Non lo sapete VOI cosa vuol dire.
Sempre impegnati a mantenere il controllo, a gestire la vita come se fosse il vostro capolavoro unico e irripetibile. Pensate davvero di essere migliori di me? Pensate che le vostre agende perfettamente organizzate fino al 2010 vi terranno al sicuro dalla merda che la vita ti butta addosso all'improvviso?
Perché prima o poi la merda ti arriva addosso cara Gianna, arriverà anche a te, sulle tue scarpine di Prada, sul parquet lucidato e sui capelli sempre freschi di messimpiega.
Io lo vedo da come mi guardi, pensi che sia una disgraziata. Pensi che tutto quello che mi è successo me lo sia cercato. Chissà che gli hai detto a Giorgio eh? Che sta con una pazza malata di mente, lo so che glielo hai detto. Che ha fatto bene a fare quello che ha fatto, eh? E' con te che stava sempre a bisbigliare al cellulare, lo so!
Ma una cosa te la voglio dire. Tu non sai cosa vuol dire essere una madre. Non lo sai che la vita non è più quella di prima. Che esiste solo lui, che non hai più tempo per essere "carina", per essere "brillante", per essere unica, scintillante, guardate che fica la mia ragazza che se ha partorito un mese fa, il bambino ci fa dormire, benissimo, certo, lo allatta lei, nessun problema, stiamo da dio, basta dare delle regole e tutto funziona, vero amore? stiamo da dio. Brutto bastardo. Maledettissimo figlio di puttana. Se solo mi fossi stato un po' vicino quando ce n'era bisogno... non sarebbe andata com'è andata.
No, sarebbe andata in un altro modo...
Gianna... scusami, io... non so più quello che dico... sto sragionando. Perdonami.
Gianna per favore dimmi come sta Matteo.
L'hai visto? Sei stata dai tuoi? Avete giocato? L'hai portato fuori? Ha mangiato?
Dimmi qualcosa per piacere.
Dimmi come sta il mio bambino.
Gianna?"
Lucia cercò di riprendere fiato mentre aspettava la risposta della cognata, ma all'altro capo del filo ormai da un po' non c'era più nessuno.
giovedì 16 novembre 2006
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III - Sottopassaggio |
Mi guardai attorno, poi cercai inutilmente la coppia alla fermata dei taxi di fronte alla stazione. Presi le scale mobili del sottopassaggio. Qualcuno scendeva in gran fretta, chiedendo scusa a nome della ventiquattrore che lo precipitava giù. Io mi lasciavo trasportare immobile, appoggiato con il gomito sul corrimano, mentre incrociavo gli occhi della gente che saliva a piedi. Il corrimano si muoveva più lentamente dei gradini, perciò ogni tanto dovevo spostare in avanti il punto d'appoggio, per non cadere all'indietro. Cosa che peraltro per poco non successe.
Passeggiavo tra le vetrine, appallottolando il pezzo di carta con il numero del poliziotto. La coppia del treno mi era già passata di mente, quando sentii una voce rimescolare l'aria. Il signore incravattato parlava al cellulare, la faccia rivolta al muro. All'ingresso del negozio di dischi notai la valigia della ragazza. Senza mai interrompere la telefonata, l'uomo si affacciò dentro al negozio, poi tornò indietro. Cominciò una complicata manovra: la mano sinistra fece comparire un borsellino da dentro la giacca, il polso con un movimento lo aprì, il ginocchio lo tenne sollevato, due dita ne estrassero una banconota e, infine, di nuovo il borsellino sparì nella giacca.
Mentre l'uomo era in equilibrio su una gamba, avevo immaginato di assestargli un preciso calcio dietro il ginocchio, e di vederlo franare giù. Con una schicchera gli tirai la pallottola di carta, colpendolo alla testa. Non si grattò nemmeno.
Non riuscivo a capire se portava ancora l'anello al dito. Si affacciò un'altra volta dentro al negozio, poi con passo svelto raggiunse un distributore automatico, poco più avanti.
Entrando nel negozio di dischi, quasi inciampai sulla valigia. La ragazza era lì a un passo. Sfogliava i cd in offerta.
"Oh scusami, l'ho messa in una posizione proprio stupida. È che ho paura me la rubino, e dentro non c'è spazio con tutta questa gente."
Da una cinghia della valigia pendeva una targhetta. Lessi un nome: Camilla.
"Oh no, figurati…" risposi. Mi svelò un breve sorriso, si raccolse i capelli dietro l'orecchio e ritornò al suo lavoro scrupoloso. Una dopo l'altra, le sue dita sottili ispezionavano un cd, poi, inarcandosi di scatto, lo facevano schioccare contro alla pila dei già visti. D'un tratto la mano si arrestò. Mancavano ancora cinque album di Tom Waits all'appello.
"Ma…ci conosciamo?" mi chiese, accentuando, in modo quasi innaturale, l'espressione interrogativa del viso.
"Ecco…io…ho visto prima che…ma ti interessava Michelucci?"
"Come scusa?"
"No niente… È solo che quell'uomo, mi sembra…" In quel momento il viso di lei scomparve dietro una spalla.
"Io ho finito. Se vuole possiamo andare" disse l'uomo. La pallottola rosa occhieggiava tra il grigio dei capelli, come un ciuffolotto intrappolato nel fil di ferro.
"Sì certo, andiamo" rispose lei docilmente.
Mentre uscivano lui afferrò la valigia, lei si voltò a guardarmi, con quell'espressione ancora aggrovigliata intorno agli occhi. Vedendola girarsi e darmi le spalle, mi domandai quanto avrebbero impiegato, quelle increspature, a lasciar posto alla normale limpidezza del volto. E mi venne in mente una scena: la superficie di un lago al tramonto, dopo il tuffo di un auto con dentro qualcosa da far sparire; un uomo, seduto sul ciglione, che guarda le schegge argentate correre a ricomporsi in uno specchio intatto. Non ricordo di quale film.
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II - Stazione |
Li anticipai, portandomi là di corsa, e appoggiato a una delle transenne aspettai. Quasi subito mi accostò un agente della Polfer. Mi chiese se era tutto a posto. Risposi di sì, che era proprio tutto a posto. Stavo forse aspettando qualcuno? Qual era il motivo per cui mi trovavo a Firenze? Prima di stabilirmi qui cosa facevo? Sembrava molto infastidito e domandava senza mai smettere di masticare una gomma. Molte sillabe dovevano restargli tra i denti, dato che, spesso, troncava le parole prima che riuscissi ad afferrarne il senso. Gli diedi la carta d'identità. Il signore con la valigia e la ragazza ci passarono di fronte: lui parlava ancora, ma ora teneva la mano sinistra dietro la schiena. Si rigirava la fede tra il pollice e il mignolo, con meticolosità, come se stesse regolando il timer di un detonatore.
"Ehi mi stai ascoltan'? Ti ho chiesto dove àbi'."
"Scusi?"
"Do-ve a-bi-ti."
"Io? In viale Guidoni, al 46."
"E da quan'?"
"Da un mese… più o meno."
"E da quanto sei domicilato a Firenze?"
"Da circa sei.""Per lavoro hai detto?"
"Sì… ora sto cercando."
"Capisco. Scusami se sono stato un po' brusco prima. Ma gira certa gen', non sai mai con chi hai a che fare. Anch'io sto da poco a Firen'."
"Mm mm."
"Non è proprio una città molto accoglien'. Come gente dico."
"Eh sì."
"Tu cosa fai la se'? Hai il tuo giro di amicizie?"
"No… cioè sì. Qualcuno."
"Io mi chiamo Mario, piacere."
"Piacere."
"Che ne dici di venire da me a prendere un caffé una di queste sere? Potresti lasciarmi il tuo nume', che ne dici?"
"Il mio…? Ah… non…non ho numero. Cioè, non ho un telefono."
"Capisco. Senti, ti lascio il mio, così se una sera ti va…"
"Mm mm."
"Ho una collezione di pistole a casa davvero stupenda, qualcuna è anche molto antica. La maggior parte le ho eredita' da mio padre, ma anch'io ci tengo molto sai? Ogni tan' ne aggiungo un bel pezzo nuovo."
"…"
"Se non c'è quella stupida della Tizi - la tipa che abita con me - te la farò vedere. Credimi è molto interessan'. Lei è un po' isterica, capisci, si mette a sbraitare ogni volta che la tiro fuori. La collezio', dico."
"Sssì."
Scrisse su un pezzo di carta rosa.
"Ecco questo è il mio numero, tieni. Ora devo andare. Mi raccoman', chiama appena puoi. Piacere di averti conosciuto Fosco."
"Piacere."
Mi fece il gesto di telefonare, strizzando l'occhio tra il pollice e il mignolo, mentre li scuoteva allontanandosi.
mercoledì 15 novembre 2006
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I - Eurostar 9450 |
“E' occupato?”
Cristiano fu tentato di rispondere di sì, ma scosse la testa e spostò la borsa che aveva messo sul sedile accanto al suo.
L'uomo prese ad armeggiare con la sua valigia, tentando di sfilare da una tasca stipata il libro.
Cristiano smise di fissarlo e si concentrò sulla sua lettura.
“Ah...al diavolo!” - disse infine l'uomo riponendo la valigia e sedendosi - “del resto non riesco mai a leggere in treno; meglio due chiacchiere, no?”
No - pensò Cristiano – meglio farsi i cazzi propri!
Era sempre sfortunato nei suoi spostamentii. Mai che riuscisse a farsi un viaggio in santa pace. Che fosse in treno o in aereo, capitava sempre accanto a qualche grassona che tirava fuori dalle sue borse di plastica arance, panini e ogni genere commestibile da offrirgli.
Come se poi i treni o gli aerei fossero luoghi di socializzazione.
E ora 'sto tizio bianco come un cencio e con due fondi di bottiglia al posto degli occhiali che voleva fare conversazione.
“Lei dove è diretto?”
Cazzi miei.
“Roma” - rispose Cristiano continuando a leggere il libro non leggendolo.
“Io scendo a Napoli, invece”. La voce dell'uomo era bassa e pacata. “Vado al raduno del mio gruppo di catechesi. Ogni mese una parrocchia affiliata con la nostra ci ospita per un fine settimana di riflessione e preghiera.”
PORCATROIA! Un parrocchiano!
A mali estremi estremi rimedi: Cristiano chiuse il libro e tirò fuori dalla borsa l'iPod. Lo accese portando il volume al massimo e sperando che anche l'uomo sentisse. Chiuse gli occhi e lasciò che la musica invadesse i suoi pensieri. Stava quasi per scivolare nel sonno, quando sentì una leggera pressione sull'avambraccio. Incredulo aprì gli occhi. L'uomo, con un sorriso beota stampato in volto, lo fissava e gli indicava una scatola di biscotti facendogli segno di pescare.
Cristiano fece no con la testa e richiuse gli occhi. Tentò di tenerli chiusi ma non riuscendoci, li riaprì giusto in tempo per vedere le labbra dell'uomo che gli indirizzavano frasi mute. Cristiano sospirò e lesse il labiale.
Prego al mattino? Cazzo! Ma che ti dice il cervello di fare certe domande a uno sconosciuto! No – gli venne voglia di urlare – e se non la smetti di rompermi le palle, più che pregare inizio a bestemmiare!
“No” - rispose Cristiano in un sussurro togliendosi le cuffie. Fu insoddisfatto della risposta e volle aggiungere qualcos'altro che potesse scandalizzare l'uomo, ma non gli venne in mente niente e ripeté: “No”.
L'uomo stava per replicare quando una ragazza si sporse verso Cristiano dal sedile dietro:
“Posso chiederti un favore?”
Cristiano annuì.
“Ti spiace spostarti al mio posto così io e la mia amica sediamo di fronte?”
Cristiano guardò la biondina insignificante che gli stava davanti e lo fissava con due occhi a palla indirizzandogli il migliore dei suoi sorrisi.
Cazzo sì!!!
“Certo” - rispose - “nessun problema”. E prima che qualcuno potesse cambiare idea si affrettò a raccattare la borsa e il giubbotto e si alzò frettolosamente. La ragazza si accomodò al suo posto mentre Cristiano sorrise trionfante al parrocchiano spostandosi nel posto dietro al suo. Si accomodò e guardò con la coda dell'occhio i suoi vicini: posti davanti vuoti, di lato un innocuo quindicenne con la musica a tutto volume e una maglietta con Topolino che mostrava il dito medio.
Ringraziò in silenzio tutti i santi che conosceva e riaprì il libro che stava leggendo.
Alzò la testa solo quando dal bagno uscì il prete che riprese il posto davanti al suo.
Il sacerdote gli sorrise, lo fissò per un attimo e poi disse:
“Figliolo, lei dove è diretto?”
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Volevo fare come la Madonna |
Come si fa a correre senza sapere dove andare? Io preferisco camminare piano. A voi forse sembrerà facile ma io non riesco ad andare a zonzo rapida come una mosca impazzita. A fare così prima o poi si inciampa in una ragnatela. Non è mica colpa di nessuno, no. Succede e basta. Perciò ho deciso che voglio camminare piano. Tanto più che prima correvo:
poco più di una bambina e già ero madre. Da qualche parte sicuramente esisteva un colpevole. Mio padre lo trovò e decise di punirmi. Fui condannata a stare con lui finchè morte eccetera eccetera.
Strani uomini mio padre e il padre di mia figlia. Non sapevano chiedere senza aggredire. Persone fragili che avevano bisogno di aiuto.
Io no. Lo aveva deciso papa’ quando disse che per lui ero morta. Non per cattiveria, solo perché nessuno gli aveva scritto una nuova battuta e lui riciclò quella di suo padre e del padre di suo padre; per attaccamento alle tradizioni, ecco.
Allora barattai la mia resurrezione con una fede al dito. A tutti piaceva pensare che io ero felice. Regalavo bugie per non morire un’altra volta.
Non ero brava come la Madonna, certo. E chi avrebbe creduto mai nel ventunesimo secolo alla favola di quella specie di inseminazione artificiale con tanto di apparizione arcangiolesca? Lei si che era stata proprio brava. Se non avessero creduto alla sua storia le toccava la lapidazione.
Così anch’io volevo fare come la Madonna, inventare una storia leggendaria, essere degna del rispetto di mio padre, vivere accanto ad un uomo buono talmente innamorato da togliermi dal disonore e accettare mio figlio come fosse suo.
Quello che avevo sposato era la prolunga malconcia del cordone paterno. Perciò non mi serviva correre. Mi riarrotolavo alla stessa velocità con la quale mi srotolavo. Effetto yo’ yo’ a parte, lui non sapeva parlare. Il suo disco si era incantato in un punto che diceva: “E’ colpa tua… e’ colpa tua… ” . Poi rideva e si arrabbiava, con me soprattutto, per qualunque ragione.
Ne avevo tante di colpe io. Me lo disse anche sua madre quella notte che andai a bussare alla sua porta. Dovevo tornare da lui, lei non voleva saperne. Mio padre in cuor suo mi aveva già ucciso e allora tornai a casa e la mia faccia diventò ancora più viola.
Una notte i vicini chiamarono i carabinieri. Avevo un labbro rotto e male alla schiena. Mi aveva preso a calci. Dichiarò di aver tirato qualche schiaffetto perché “anche nelle migliori famiglie ci sono discussioni”. Sorrisi di complicità, gomitate, uno in divisa mi fa: - Signora sta bene? Vuole fare la denuncia? – una chiara intimidazione, il mio uomo minaccioso non mi perdeva di vista. No, che non stavo bene e no, che non volevo denunciare. Ma cosa glielo dicevo a fare.
Io volevo solo essere come la Madonna. Passare la nottata, sopravvivere, vedere sorgere il sole e poi cercare un posto dove andare. Se lo denunciavo lui diventava più cattivo.
Con i giorni passarono anche le diverse tonalità di viola. Guarito il labbro, guarito tutto, meno la paura. Presi i ricordi che lui non aveva distrutto e andai da una amica. Mi ritrovò e minacciò di demolirgli casa. Tornai indietro.
Mia madre mi disse che il matrimonio era così: “vedi quanti sacrifici faccio io per mantenere la pace in famiglia!” Si mamma, lo vedo. Ho capito.
La mia amica mi accompagnò a parlare con la tizia dell’associazione. Era così bella. Non aveva neppure un livido. Curata, perfetta. Mi guardava per capire con quale scusa mandarmi via. “Non riesco più a vedere il mio futuro!” – le dissi. Non fu sufficiente. “La situazione finisce se decide che finisce!“ – mi rimproverò.
Non reggevo il suo sguardo. Mi faceva vergognare di esistere. Allora era proprio vero: me lo meritavo! Altro che fare la Madonna. Lei aggiustò più volte una splendida ciocca dei suoi capelli e aggrottando le sopracciglia mi disse che mi fissava un appuntamento con una psicologa.
“Non posso tornare a casa. Ho bisogno di un lavoro…” – provai a chiedere. Quella insisteva che bisognava prima fare la denuncia e da lì iniziava la trafila per l’ammissione alla casa protetta. “Ma se lo denuncio e resto a casa con lui come faccio a non morire?” “Deve capire… che non abbiamo tanti posti, non ci danno abbastanza contributi. Lei intanto vada a dormire da un’amica…”
Certo, come no! Tornai a casa. Mia figlia si addormentò presto, povera cucciola. Presi una lama, quella più affilata. Rimasi così seduta per ore, con il coltello in mano. I suoi passi, udivo distintamente il suo respiro, poi infilò la chiave nella serratura. La porta si aprì.
venerdì 10 novembre 2006
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Una giornata guadagnata |
‘Questi impermeabili da 99 centesimi che si ripiegano fino a stare in una taschina devono essere cinesi.’
Guido allo specchio dell’ingresso si dà un’ultima controllatina alla composizione dei capelli poi pulisce gli occhiali con cura ed esce.
Sull'autobus non presta attenzione alla filippina che trattiene a stento le intemperanze delle figlie già grassissime, non sente la ragazzina che piagnucola al cellulare, tanto meno percepisce il tanfo del barbone accanto a lui.
Come in trance si ritrova in ufficio. Prima di sedersi alla scrivania esegue uno studiato rito che gli permette di perdere dai 3 ai 4 minuti: appende la giacca all'attaccapanni, guarda fuori dalla finestra, controlla l'umidità del terriccio delle piante grasse, va al boccione a riempirsi una bottiglietta d'acqua, incrocia e saluta un paio di colleghi, innaffia le piante, beve un sorso, lancia uno sguardo di odio al Nemico e in atteggiamento di resa si china ad accenderlo.
Mentre il Nemico si anima con i consueti rumorini Guido prende tempo raccogliendo e ordinando i fogli sulla scrivania.
La scadenza è vicina e lo aspetta un'insopportabile giornata di inserimento dati e spuntatura.
Gli altri dell'ufficio sono in ferie, è completamente solo, ma questo non gli dispiace.
Il Nemico cessa di rumoreggiare e Guido con un moto di orgoglio alza la testa fiero e pronto a fronteggiare le schizofreniche letterine verdi lampeggianti.
Invece sullo schermo campeggia su sfondo rosa una frase:
"GUIDO ASCOLTAMI: TI DEVO PARLARE URGENTEMENTE”
(premere un tasto per continuare)
Guido si guarda a destra e a sinistra e poi alle spalle, assumendo istintivamente l’atteggiamento del protagonista di un film di fantaspionaggio.
Chiude ed apre gli occhi più volte, si toglie gli occhiali, li pulisce di nuovo, li inforca agitato, ma sullo schermo la situazione non è cambiata:
"GUIDO ASCOLTAMI: TI DEVO PARLARE URGENTEMENTE”
Ormai già schiavo dei nuovi desideri del Nemico Guido preme invio.
"TI DEVO PARLARE URGENTEMENTE: ALZA IL VOLUME”
Guido avvicina la mano tremolante al regolatore del volume e in quel momento suona il telefono.
mercoledì 8 novembre 2006
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Vaianelli verdi |
Faceva molto caldo, Teresa non ricordava il motivo della sua tristezza, ormai era triste da così gran tempo che non ne ricordava più il motivo. Il pomeriggio era torrido, Beppino si muoveva lento. Non si ricordava più neppure se era venuta lei a trovare Beppino o se lui era venuto a trovare lei. Sentiva solo le sue troppe carni scomodamente pesare sulla sedia imbottita ed appiccicarsi ai braccioli. Per strada non si sentiva un rumore, tutti a quell’ora si fermavano. Beppino si era alzato presto, come faceva sempre, ed era andato al mercato della marina a comprare i vaianelli freschi. Si trovano solo in questa stagione, non sono buoni quelli grossi che vengono da lontano. Li aveva lavati e li aveva messi ad asciugare sul rovente pavimento della terrazza abusiva, che tanto non dava noi a nessuno. Anche il vicino ne aveva fatta una. Si ricordava che quando era giovane lui ed aveva costruito la casa, ci si metteva d’accordo tra vicini, e se non si dava noia ai dirimpettai che motivo c’era di avvertire le autorità? Forse avrebbe anche alzato un altro piano, ma aveva tre figlie e la casa aveva già tre piani, per i nipoti, no, per loro non avrebbe rialzato la casa, tanto quando venivano a trovarlo non erano mai tutti insieme e del posto ce n’era già abbastanza.
Beppino toglieva i semi da dentro i vaianelli, perché sono quelli che piccano, Teresa continuava a stare immobile ad osservarlo, continuando a sentire la pesantezza della sua tristezza gravare sulla sedia insieme alle sue membra. Non capiva perché i movimenti lenti del vecchio padre la ipnotizzavano così. I vaianelli vanno arrostiti su una piastra e poi spellati con le mani. Perché con quel caldo si doveva accendere il fuoco sotto la piastra di pietra? Le mani di Beppino non si bruciavano con i vaianelli caldi. Teresa aveva provato a sbucciarne uno per rompere il suo torpore, ma si era scottata le dita e ci aveva rinunciato. Eppure osservare quei movimenti lenti ed esperti la rassicurava. Teresa sentiva che giù al piano terreno era arrivata Concetta a prendere il caffè con sua sorella e la chiamavano per unirsi a loro, non rispose e credettero si fosse addormentata. Neppure Beppino sembrava essere disturbato da quelle voci. Quando ebbe finito di pelare i vaianelli li mise sotto sale ed olio e li lasciò freddare.
Teresa si accorse soltanto nel tardo pomeriggio di essersi addormentata. L’odore del caffè non si sentiva più. Si sentivano le voci di condoglianze. Avrebbe dovuto scendere, vestirsi magari di nero e salutare i compaesani che erano venuti a porgere il saluto alla sua anziana madre pronta per l’imminente funerale.
Quando scese c’erano rimasti solo i nipoti e le comari più vicine indaffarate a preparare la cena per chi, dei parenti, venuti da lontano per le condoglianze, si tratteneva fino al funerale l’indomani. Le dissero che erano venuti anche quelli del Partito. Avevano onorato anche suo padre quando se n’era andato, se ne ricordava bene, teneva ancora quel manifesto con la fascia a lutto, arrotolato nel cassetto. Le avevano fatto piacere quelle parole sull’integrità di suo padre ed il rispetto che tutti gli avevano dimostrato. Allora l’attuale presidente aveva voluto esprimere il cordoglio per la perdita di Beppino che era stato il primo presidente del Partito in paese, ed adesso mandava il suo cordoglio per Maria la vedova di Beppino. Teresa non sopportava l’odore dei gigli che con l’aria calda sapevano di marcio. Possibile che a nessuno era venuto in mente di spalancare le finestre e cambiare l’aria? Le spalancò lei.
Non aveva voluto mangiare insieme ai nipoti ed agli altri commensali. Non aveva fame e durava una gran fatica a riconoscere tutte quelle facce. Tornò su all’ultimo piano. Lassù non si sentiva l’aria pesante di fiori e di stantio che pervadeva il piano terreno. Portò il piatto di spaghetti con sopra i vaianelli arrostiti sulla terrazza abusiva dove spirava un po’ di aria nuova. Li mangiò con gusto senza domandarsi dove fosse Beppino che li aveva preparati.
SILVIA 8 NOVEMRE, 2006
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La goccia che fa traboccare il vaso |
La porta sbatté. Carmen rimase immobile con gli occhi pieni di lacrime indecisa se entrare o meno. Poggiò la mano grinzosa sul pomello, ma la ritrasse subito come se si fosse scottata.
Dalla cucina arrivava l’odore del soffritto di cipolla che stava preparando. Rimase ancora qualche secondo di fronte alla camera del figlio, poi ricacciando le lacrime negli occhi, si volse lentamente a guardare fuori da una finestra.
Il buio era già sceso da un paio d’ore e fuori la pioggia batteva incessante. Carmen fu tentata di lasciar bruciare il soffritto sul fuoco e uscire senza cappotto e senza ombrello a farsi bagnare dalla pioggia. Poi riprese coscienza di dove era e di cosa stava facendo e asciugandosi la faccia ancora umida con il canovaccio che aveva in mano si trascinò in cucina.
L’odore di cipolla era forte, insopportabile e Carmen fu presa nuovamente da un’irrefrenabile voglia di scappare. Per la seconda volta si scosse. Accese l’aspiratore e tirò fuori il tagliere e un coltello. Iniziò a sbucciare le carote e quando ebbe terminato prese a tagliarle a sottili rondelle. Portò avanti questa azione carota dopo carota finché il coltello non le scivolò verso l’indice sinistro con cui teneva ferma la verdura. Carmen ritrasse istintivamente il dito portandolo in bocca e succhiandolo. Sentì il sapore metallico del sangue.
Prese il canovaccio con cui si era asciugata il viso un attimo prima e lo strinse forte intorno al taglio. Si mise a sedere accanto al tavolo appoggiandosi con il gomito e portando la mano destra sulla fronte come a sorreggersi. Rimase in questa posizione qualche secondo; poi iniziò a singhiozzare, prima piano, poi sempre più forte. Si tolse il canovaccio dal dito ferito e cercò di usarlo per attutire i suoi singhiozzi disperati. Ma ormai il pianto era incontrollabile.
Quando finalmente i singhiozzi iniziarono a placarsi, Carmen si alzò, si sciacquò il viso con l’acqua fredda del rubinetto della cucina e rimase un attimo in silenzio ad ascoltare il ticchettio della pioggia che fuori continuava incessante .
Poi spense il fornello dove cuoceva il soffritto, prese il coltello con cui si era tagliata e stringendo ancora il canovaccio nell’altra mano si diresse verso la camera del figlio.
Bussò alla porta come lui voleva che facesse e per tutta risposta udì:
“Vaffanculo, stronza!”
Carmen aprì la porta come se lui l’avesse invitata ad entrare e lo guardò abbozzando un sorriso.
“Cazzo vuoi?” - la apostrofò lui a testa bassa.
Carmen continuò a sorridere mostrandogli la mano sinistra insanguinata.
Solo in quel momento lui alzò la testa e vide il coltello.
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Le vacche |
Tutte in fila, come vacche che si rifiutano di dare il latte, pronte per essere macellate. L’omino marchia la pelle con l’anestesia. Pochi capelli, cinquant’anni portati male, occhio allusivo. Ha il camice bianco e per lui siamo puttane. Si attarda sul corpo della più giovane. Le carezza il braccio “per prevenire la comparsa di un ematoma!”
Mentre la volontà scompare, il mondo si chiude su risa e suoni di gente che aggeggia dentro di me. Dispiaciuta, sono dispiaciuta. Soprattutto sono arrabbiata. Con me stessa, certo. Potevo stare più attenta, alla mia età poi. Noi poveri non possiamo permetterci questi lussi. La mia è una generazione disgraziata: a quarant’anni ancora dipendi dalla mamma e dal papa’.
Ma la rabbia non è tutta per me. La donna che ho incontrato al consultorio era gentile, carina. Aveva l’ansia da personale sotto organico chiamato a fare perenni straordinari. Faccia da pronto soccorso in stile con un “fermi tutti, qui ci penso io!”
Non mi è sembrata una che desse giudizi morali. Certo non parteggiava per me: Fissò il mio intervento con l’infornata di molte settimane dopo. Soltanto una prima che scadesse il tempo.
Giorni di merda quelli. Come stare su una barca con il mare in tempesta. Capite come stavo io? Non c’era niente, dolce o salato, che riuscissi a trattenere. Male dappertutto e la depressione dipingeva tutto di nero.
Ho perso il lavoro e per poco non perdevo anche il compagno. Sarebbe stato grave. Uno di sinistra non si trova dietro ogni angolo. Denunciava di sentirsi trascurato mentre lo buttavo fuori dal letto. Perché le femmine in cinta agli uomini sono sempre piaciute. Il mio malessere per lui era un dettaglio risolvibile. Bastava che all’improvviso lui prendesse a trattarmi come una bambina idiota. Compassione piuttosto che rispetto e corresponsabilità.
Al consultorio avevo visto altri uomini. Uno ottemperava. Roba di doveri da protocollare e archiviare. Ce n’era un altro. Pareva uno delle poste. Fatta consegna, via. Lei era probabilmente la badante della madre, o la sua.
Riapro gli occhi su una brutta stanza d’ospedale. Mi rimandano a casa che sto ancora rincoglionita. Ferita chiusa, possibilità chiusa, utero aperto. Rimane così: spalancato. In medicina si richiude a sprangate. La pillolina postoperatoria sembra innocua ma provoca crampi che nessuno si preoccupa di anestetizzare. Doglie similparto per settimane.
I dottori fanno i pusher solo per dolori consentiti e soprattutto spontanei. Quelli autoindotti non si attenuano: “Bisognava pensarci prima!”
Urlo l’utero che si richiude, accidenti a lui. Urlo il mio uomo eccitato mentre guarda il mio seno “grosso”. Urlo il mondo intero.
Proprio come fare una passeggiata!
martedì 7 novembre 2006
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I - Arrivo |
"Scusi, ferma a Santa Maria Novella?" mi domandò, trascinando poi lo sguardo sul signore a fianco a me. Gli osservai la cravatta. Era a quadrettini rossi bordati di nero: fissandoli davano l'impressione di muoversi su binari paralleli, con sensi di marcia invertiti. Il nodo affondava fino al secondo bottone della camicia: ne fuoriuscivano sottilissimi e bianchi zampilli di peli.
"Sì certo, è la prossima stazione" rispose lui con un boato. Approvai con una smorfia, tanto per far capire alla ragazza che anch'io avrei saputo risponderle. Lei sussurrò un grazie, che cadde nella stretta intercapedine tra me e il signore, e sembrò poi che con rapidi movimenti degli occhi ne seguisse i rimbalzi casuali, fino ai propri stivali lucidi indossati sopra i jeans.
Più il treno rallentava la sua corsa, più velocemente lo spazio tra le porte si affollava di gente. Pensavo alle parole con cui avrei spiegato alla ragazza, dopo averla aiutata a portare giù la valigia, come la rotellina si poteva facilmente riparare. Al centro del vestibolo, una mano impugnava con forza l'asta metallica infilzata tra soffitto e pavimento, quasi la volesse sradicare e lanciare come un giavellotto lungo il corridoio. Un'altra mano faceva penzolare un vecchio libro. La scritta sulla costola iniziava con Fe e terminava con ata: il resto dei piccoli caratteri dorati, leggermente in rilievo, era coperto da due dita grassocce. Dietro di me le porte si aprirono.
"Signorina, permette che l'aiuti?" domandò una voce di baritono. Mi girai e vidi la valigia diventare leggerissima tra le mani del signore incravattato. La ragazza soffiò un grazie più mirato, che raggiunse il profilo dell'uomo. Mentre i passeggeri sfilavano intorno a me, indugiavo sul predellino. Osservavo il signore che tentava di mettere a posto la rotellina: sulla banchina, a due passi da me, se ne stava rannicchiato, come imploso su se stesso nell'abito scuro che strusciava il pavimento, nascondendogli le scarpe. Anche la testa ripiegata nel petto era invisibile: vedevo solo le spalle accartocciate e la mano destra, che spiccava in alto per reggere la valigia. Ogni tanto una folata faceva spuntare la cravatta rossa, che, come la lingua di uno strano essere deforme, mi sbeffeggiava sventolandosi. La ragazza, leggermente curva su di lui, raccontava l'incidente che aveva causato quel piccolo danno. Parlava con una mano davanti alla bocca, che ogni tanto scopriva per raccogliere i capelli dietro l'orecchio. Erano capelli lunghi e lisci, e a ogni breve risata le loro punte, come mille dita impazienti, tamburellavano sulla mano dell'uomo. Di colpo lui smise di armeggiare sulla rotellina, fece apparire da sopra una spalla la testa e la volse a guardarmi, aggrottando le sopracciglia. Emisi uno sbuffo di sorpresa e mi allontanai velocemente, sentendo come uno schiaffo simultaneo su entrambe le guance.
domenica 5 novembre 2006
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Un blog di racconti e riflessioni sulla scrittura |
L'idea del blog degli apprendisti scrittori nasce durante le lezioni del corso di tecniche narrative, al Giardino dei Ciliegi di Firenze.
Pubblichiamo qui i nostri racconti e le nostre riflessioni sulla scrittura, creando così un luogo di incontro tra stili ed esperienze diverse, alla ricerca di nuovi stimoli e nuove consapevolezze, sospinti dalla motrice del confronto.
Leggete i racconti, commentate, criticate, sollecitate, proponete.
Come si fa tra amici, quando si condivide una passione.