La mia vita è noiosa. Di certo non mi lamento; con tutto quello che succede al giorno d’oggi e con quanto si sente dire in giro, molti vorrebbero essere nei miei panni. Vivo a Firenze da molti anni ormai, anzi, per quel che posso ricordare, ho sempre vissuto qui. Mia madre mi ha abbandonato subito dopo che sono nato e per diverso tempo ho vissuto in modo randagio vagabondando e passando da un posto all’altro. Poi Tommaso e Claudia, lui dentista, lei giornalista, mi hanno tolto dalla strada, mi hanno preso sotto la loro protezione, mi hanno dato un tetto sotto cui stare e del cibo con cui sfamarmi. Cosa volere di più? Per uno come me abituato a vivere alla giornata per strada è senz’altro più di quanto si possa sperare. Non avrei niente di cui lamentarmi, ma rimane un dato di fatto: la mia vita è noiosa.
Questo è quanto ho continuato a ripetermi per mesi finché ho capito che dovevo fare qualcosa a riguardo, trovare un diversivo e lasciare che Tommaso e Claudia vivessero la loro vita e affrontassero il loro matrimonio senza di me.
Ho iniziato questo processo di distaccamento con gradualità; in realtà distaccarmi da loro non è stato un grosso problema: dicono tutti che sono di compagnia, ma fondamentalmente sono molto indipendente e abituato a starmene solo. Ho cominciato a presentarmi a casa solo per mangiare e dormire e, nei confronti di Claudia, che è sempre stata quella della coppia più attaccata e affezionata a me, ho iniziato a comportarmi in modo più freddo. Lei ha notato subito il cambiamento; ogni tanto mentre stavo mangiando veniva vicino a me, mi guardava con i suoi occhi azzurri e mi carezzava con le sua mani lunghe e affusolate, chiedendomi cosa ci fosse che non andasse. Allontanarsi dalle sicurezze della vita di Claudia e Tommaso è stato un primo passo molto importante per il mio cambiamento, ma chiaramente non era sufficiente: non sono le sicurezze quotidiane che rendono la vita noiosa.
Ho preso allora una decisione estrema; ho deciso di tornare dove avevo vissuto a lungo: la strada. Tornare alle origini mi ha provocato una reazione strana: vedere nuovamente quei posti, sentire quegli odori. Pensavo di trovare quella zona di Firenze trasformata, ma in sei anni non è cambiato poi molto: le strade sono sempre le stesse, il quartiere degradato, la via principale piena di travestiti e prostitute. Mi sono aggirato furtivo tra quella fauna notturna cercando una faccia nota, un viso amico. Le prostitute sembravano non notarmi intente come erano a mostrare il loro corpo a potenziali clienti che si fermavano con la macchina ai lati della strada.
Poi ho visto Miranda. E’ stato quando lei ha rivolto lo sguardo verso di me e mi ha riconosciuto che è scattato qualcosa. Ho capito che quella notte in qualche modo sarebbe stata diversa, avrebbe segnato l’inizio di una nuova vita per me e qualcosa finalmente sarebbe cambiato.
Miranda, che per quanto ricordavo in realtà si chiamava Carlos ed era brasiliano, mi ha fissato a lungo come cercando negli archivi della sua memoria il file relativo a me. Poi nei suoi occhi si è accesa una luce, si è avvicinata a me allontanandosi dagli altri trans e ha esclamato: “Non ci posso credere!!! Tu?!?!” Il tono della sua voce era esattamente come lo ricordavo: basso e roco da fumatore. Ci siamo venuti incontro. L’ho guardata meglio: portava i soliti abiti vistosi con cui l’avevo vista l’ultima volta che ero stato lì, sei anni prima. La parrucca liscia era di un nero luminosissimo che metteva in risalto gli occhi azzurri truccati pesantemente con diverse tonalità di blu. Era sempre magrissima e sempre bellissima. A stento avresti detto che si trattava di un uomo. “Oddio, sono passati degli anni”, ha continuato Miranda, “ma riconoscerei quei due fari che hai al posto degli occhi ovunque! Come potrei scordare due occhi verdi come i tuoi!” Miranda è sempre stata fissata con i miei occhi. Io trovo che siano normalissimi; i suoi azzurri e profondi sono molto più belli, ma ricordo benissimo che anche la prima volta che ci eravamo incontrati Miranda aveva passato i primi 10 minuti a elogiare i miei. E’ rimasta per qualche secondo ferma e zitta, indecisa se abbracciarmi o meno. Poi mi ha stretto fra le braccia e io ho sentito l’odore del suo trucco e dei suoi vestiti misto al sudore della sua pelle.
Alla fine si è staccata da me e mi ha guardato nuovamente: “Oddio, hai un’aria così sbattuta! Ma stai bene? Senti, sto per staccare, stasera non è una gran serata, perché non vieni da me che ti do qualcosa di buono da pappare…” Miranda mi ha sempre parlato con questo tono, il tono con cui le madri si rivolgono ai propri figli. Così Miranda ha staccato, ha salutato le altre prostitute che dividono la strada con lei e mi ha portato a casa sua.
Anche la casa mi era familiare; c’ero già stato almeno due o tre volte. L’ambiente era piccolo, ma Miranda lo aveva reso molto intimo e carino. Aveva gusto per l’arredamento. Mi sono adagiato mollemente sul divano; Miranda è sparita nel bagno per una ventina di minuti e quando ne è uscita era di nuovo Carlos. Si è diretto in cucina continuando a parlare e raccontarmi la sua vita e in quel momento ho capito che c’era qualcosa peggiore di una vita noiosa come la mia: la vita insulsa e solitaria di Miranda. Realizzare questa cosa avrebbe forse dovuto farmi sentire meglio e qualcun altro al mio posto dopo questa inebriante scoperta sarebbe corso di nuovo a casa da Tommaso e Claudia. Ma la mia reazione è stata diversa: non so bene il motivo, ma la rabbia che ho provato inizialmente per la vita inutile di Carlos si è trasformata ben presto in una sensazione diversa. L’adrelina ha cominciato a entrarmi in circolo e ho capito di essere eccitato: la vita senza senso di un derelitto come Carlos mi eccitava e mi esaltava. Ho realizzato che ero stato portato nuovamente lì con un preciso compito; forse potevo fare qualcosa per lui e per me, qualcosa che avrebbe reso la mia vita meno noiosa e la sua meno inutile.
Quando Carlos è uscito dalla cucina con il latte che aveva preparato ha notato che qualcosa era cambiato nel mio sguardo. Si è bloccato sulla porta con il latte in mano, ha smesso di parlare e mi ha fissato dritto negli occhi. Penso che in quel momento abbia capito perfettamente quello che stava per accadere e se non fosse stato per il fatto che non mi avrebbe mai creduto capace di tale azione sarebbe scappato a gambe levate. Ho ricambiato il suo sguardo e i miei occhi verdi si sono piantati nei suoi occhi azzurri percependo la sua preoccupazione. E’ stato come un afrodisiaco e la mia eccitazione è salita ancora di più.
Ricordo di essergli saltato addosso con una tale velocità che Carlos ha lasciato cadere il latte colto più dalla sorpresa che dallo spavento. Ma quando ho iniziato a colpirlo ripetutamente e ferocemente al viso, lo stupore nei suoi occhi si è trasformato in autentico terrore. Carlos era esile; ha tentato più volte di liberarsi dalla mia presa e scaraventarmi via, ma la mia furia e la mia eccitazione erano incontenibili. Mi sono attaccato alla sua gola, mi sono accanito sulla sua giugulare. Non ho avuto bisogno di nessuna arma: uccidere Carlos è stato semplice. E più vedevo il sangue zampillare, più mi eccitavo e volevo vederne ancora. A quel punto ho fatto una cosa che non immaginavo nemmeno lontanamente di essere in grado di fare. Ho dato un morso alla gola di Carlos e la sua carne era così tenera, così morbida che l’ho strappata via con foga. Ho tenuto in bocca quel pezzo di carne calda mentre i suoi occhi azzurri (gli occhi di un bambino, ho pensato in quel momento, Carlos avrà almeno 18 anni?) mi fissavano increduli ed esanimi. Poi ho provato a masticarla e il sapore era così buono che l’ho ingoiata. So che molti di voi lo troveranno sconveniente ma devo dire che quel primo pasto di carne umana è stato una vera rivelazione. Mi sono cibato del corpo di Carlos finché non sono stato sazio. Poi ho notato il latte rovesciato per terra; ormai il bianco era diventato un tenue rosa. Avevo sete, così ho leccato il latte misto al sangue di Carlos direttamente da terra. Poco educato forse, ma molto soddisfacente.
Quando mi sono sentito sazio e dissetato, ho iniziato a calmarmi e stare meglio. Ho guardato il corpo mutilato di Carlos giacere in quella pozza di sangue e latte e ho pensato che era stata un’esperienza così emozionante, inebriante e così poco noiosa. E sono anche convinto che per Carlos era stato…come dire… liberatorio.
Non credo di aver commesso alcun crimine uccidendo Carlos; penso piuttosto di averlo liberato da un’esistenza squallida e triste. Per questo motivo ho iniziato a tornare sul viale prima una volta alla settimana, poi sempre più spesso, per scegliere ogni sera una o uno di loro da liberare. Le prostitute ora hanno paura, ma io sono un tipo insospettabile e uso le dovute precauzioni. A Firenze non si parla d’altro che del fantomatico killer che uccide le prostitute, i travestiti e le marchette. I giornali mi hanno ribattezzato il “Mutilatore”. Non capiscono che nonostante ci sia una motivazione di base egoistica per quello che faccio, io sono più che altro un “Liberatore”.
Spesso tornando a casa da Tommaso e Claudia (dove dormo solamente, il cibo me lo procuro io stesso ormai) li sento parlare in salotto. Credono che non li senta e a volte mi sembra che si comportino come se non ci fossi o non capissi. Claudia continua a dire a Tommaso che sono diventato strano, lui la rassicura. L’altra sera tornando a casa ho sentito che Tommaso parlava di questi omicidi efferati che stanno sconvolgendo Firenze. Diceva che l’opinione pubblica è sconvolta e non si spiega come l’assassino riesca a entrare indisturbato nelle case delle prostitute.
Talvolta gli uomini sono così ciechi: se solo Claudia e Tommaso mi guardassero con più attenzione capirebbero immediatamente che ho a che fare con tutte quelle morti. Claudia dice che prima o poi lo prenderanno questo maniaco e allora pagherà per tutto quello che ha fatto. Tommaso dice che fosse per lui lo ucciderebbe nello stesso modo orribile in cui uccide le sue vittime.
Io non so… sono certo che presto le autorità capiranno che sono io. Se mi prenderanno, mi uccideranno? Io non sono così preoccupato: del resto si dice che i gatti abbiano nove vite.
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Tommaso si svegliò con un raggio di sole che gli batteva sul viso e cercò con la mano Claudia nel letto. Non c’era. Si alzò e scese in cucina dove la trovò intenta a preparare il caffè.
- Buongiorno amore - le disse baciandola.
Claudia gli sorrise, lo guardò indicandogli con la testa il gatto adagiato sul frigorifero e gli disse:
- Dobbiamo portare Freeme dal veterinario; ha di nuovo il pelo coperto di chiazze rosse…sembra sangue.
Gli occhi verdi del gatto li fissarono come se capisse perfettamente di cosa stavano parlando.
martedì 23 gennaio 2007
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Una Vita Noiosa |
mercoledì 17 gennaio 2007
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Questioni di metodo: Cerco materiali e storie per scrivere un romanzo! |
Non scrivo un racconto e non condivido una trama. Lo farò presto, spero. Però vorrei condividere con voi la mia modalità di lavoro.
Sto tentando di scrivere un romanzo. Uno di quelli che si ha in mente di scrivere da tanto e però non si sa come fare e da dove cominciare. Ebbene: ho iniziato e dopo la prima pagina, che certamente stravolgerò, mi sono fermata perchè ho capito una cosa fondamentale (e qui viene fuori un altra questione tecnica o pratica della narrazione: il reperimento dati e le informazioni legate al racconto): non ne sapevo abbastanza della materia di cui stavo parlando. Ovvero sapevo quello che riguardava me. Una visione parziale che con molta difficoltà può essere spunto di un romanzo compiuto, in cui parlano più voci, all'interno del quale sopravvivono personaggi di ogni genere, che parlano linguaggi diversi ed esprimono modi diversi di pensare relativamente ad ogni cosa.
Mi serviva perciò sapere qualcosa di più su quello di cui io ho voglia di raccontare. In questo caso cerco materiale, documenti, storie, racconti, testimonianze su qualunque situazione in cui esiste, si intravede, è chiaramente visibile, c'e' traccia di aggressività al femminile e/o di bullismo al famminile.
Qui e qui potete trovare spunti sulla materia per capire di cosa parlo. Ma le domande sono semplici: avete sorelle, madri, amiche, datrici di lavoro, colleghe che qualche volta si comportano un po' male (è un eufemismo) e hanno atteggiamenti di esclusione, ostracismo, bullismo, mobbing, calunnia, cattiveria, astio, ostilità, aggressione indiretta o diretta? A voi stess* è capitato di essere (maschietti e femminucce) parte (da leader o spettatori o complici) di progetti volti a danneggiare fisicamente o psicologicamente qualcun*?
Che ne pensate del metodo? Avete storie da raccontare? Io potrei raccontarne a voi perchè siano spunto per vostre narrazioni. Ditemi...
martedì 16 gennaio 2007
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IV - L'Eterno Riposo Dona Loro |
La chiesa era fredda.
Ma ‘sti cazzo di preti non lo accendono mai il riscaldamento?
Cristiano rabbrividì stringendosi nel giacchetto e guardò verso l’altare dove stava la bara in cui avevano infilato sua nonna un paio d’ore prima.
Poi di sottecchi si voltò ad osservare sua madre seduta di fianco.
Tu non hai freddo, eh? Con quella cazzo di pelliccia e quella volpe morta in testa!Fissò il suo profilo. Sua madre sosteneva di avere un profilo superbo, Cristiano pensava che in realtà i tratti erano molto grossolani e tradissero le sue origini umili.
Dopo aver chiarito la questione alla stazione, si era precipitato a casa di corsa. Cristiano aveva voluto salire di sopra per vedere sua nonna per l’ultima volta e sua madre aveva avuto la malaugurata idea di seguirlo.
E davanti al corpo stecchito di sua nonna si era scatenato il finimondo.
“Cosa succederà ora?”, gli aveva chiesto sua madre dalla soglia della camera.
Cristiano si era voltato notando solo in quel momento la sua presenza.
“Mamma, possiamo parlarne dopo? Vorrei rimanere un po’ solo con la nonna.”
“Santiddio, Cristiano, non hai un minimo di tatto. Sono sconvolta, cosa farò adesso?”
Cristiano aveva respirato profondamente e aveva contato fino a dieci prima di rispondere:
“Mamma, davvero, ne parliamo appena scendo…”
“Ma tuo padre mi caccerà da qui adesso…”, aveva replicato sua madre.
Cristiano aveva fatto ricorso a tutto il suo autocontrollo e l’aveva pregata ancora una volta di scendere e aspettarlo di sotto. Sarebbe arrivato subito.
Ma la madre aveva continuato:
“Io non so che fare, non so dove andare. Se tuo padre mi manda via dalla villa, io… Tu devi aiutarmi!”
Cristiano si era voltato furibondo e per una volta aveva dato voce ai suoi pensieri:
“Cristo, mamma, ma possibile che sai pensare solo a te stessa?!?!”
La madre aveva fatto una faccia in cui si leggeva un misto di fastidio e paura. Poi lo scatto del figlio verso di lei l’aveva spaventata e aveva fatto un passo indietro.
“Cazzo, mia nonna è morta. La donna che mi ha cresciuto al posto tuo se n’è andata e tu stai qui a lamentarti e a buttarmi addosso le tue paranoie del cazzo! Porcaputtana, ma non capisci proprio?”
“Cristiano, non usare quel linguaggio quando sei con me e non dire…”
“Vaffanculo! Non dire cosa?”, Cristiano aveva alzato la voce e sua madre era indietreggiata di un altro passo:
“Che cazzo non vuoi che dica? Il tuo finto perbenismo e la tua morale del cazzo mi hanno represso anche troppo a lungo!”
Era sembrato a Cristiano che sua madre fosse disorientata. Poi aveva fatto due passi e si era avvicinata a lui e al letto dove il corpo di sua nonna ascoltava non potendo più sentire. La voce di sua madre era diventata piagnucolante:
“Tu mi odi, vero?”
Cristiano aveva sospirato pentendosi di aver sbottato.
“Mi dispiace, sono… sono…”
“Lo so che mi odi. Ogni cosa che dici o fai ha lo scopo di ferirmi…”
Cristiano aveva parlato prima di fare in tempo a mordersi la lingua:
“Sarebbe un bene che ti odiassi. Provo solo indifferenza per te.”
Si era reso conto di aver esagerato e di essere stato cattivo, ma la madre pareva non aver colto la crudeltà della sua affermazione.
“Lo so che mi odi”, ripeté lei.
Quella donna era troppo egocentrica per cogliere il senso della sua frase. Cristiano aveva pensato che era meglio così, aveva dato un ultimo sguardo a sua nonna e poi era sceso lasciando sua madre là, in piedi accanto al letto.
La guardò nuovamente e lei stavolta si voltò e tentò di sorridergli. Il prete stava blaterando che la nonna sarebbe stata nella gloria infinita del Signore Onnipotente.
A Cristiano venne voglia di alzarsi e urlare. Respirò profondamente e si guardò intorno. Si chiese se le persone intorno a lui si fossero domandate dove era l’ingegner Bonfanti. Qualcuno l’aveva chiesto a sua madre prima che il funerale iniziasse. Lei aveva fatto uno sguardo contrito e aveva spiegato che l’ingegnere era bloccato in Sud Africa per lavoro e si augurava che sarebbe tornato presto. Cristiano si era chiesto dove fosse davvero suo padre per non presenziare al funerale della madre.
“Il Signore sia con voi”
“E con il tuo spirito”, rispese la chiesa alzandosi in piedi.
Cristiano si alzò e ringraziò che la funzione fosse terminata.
Il prete diede la benedizione e a Cristiano venne da vomitare. Corse fuori dalla chiesa per respirare una boccata di aria fresca.
La luce che lo investì davanti al portone fu abbacinante. Cristiano si parò gli occhi con la mano e ascoltò inebetito le condoglianze di un paio di sconosciuti che uscivano dalla chiesa e si avvicinavano a lui. Sua madre lo raggiunse mentre intorno a lei si creava un capannello di persone per salutarla.
Lei sorrideva debolmente a destra e a sinistra come a dire che, sì, in qualche modo si sarebbe fatta forza e sarebbe andata avanti.
A Cristiano venne un altro conato di vomito. Fece un altro grosso respiro e chiuse gli occhi, ma li riaprì subito distolto dal suono del cellulare di sua madre. Lei si scusò e si allontanò un po’ per rispondere.
Cristiano si voltò e si trovò davanti il prete che aveva celebrato la funzione mentre la bara veniva caricata sul carro funebre.
“Come va?”, gli chiese il prete.
Di merda.
“Bene.”
“Mi raccomando”, proseguì il prete, “stai vicino a tua mamma e falle forza.”
Cristiano non seppe se scoppiare a ridere o mettersi a urlare come un indemoniato.
La voce della madre risuonò isterica davanti al sagrato della chiesa:
“Cristiano, Diosantissimo, parlaci tu!”, gli disse tendendogli il cellulare.
“Chi è?”, chiese Cristiano davanti a un prete allibito.
“E’ tuo padre… Dice che sta venendo a Roma, dice che devo andarmene…”
“Andartene dove?”
“Cristosanto, dice che non posso rimanere alla villa un secondo di più. Vuole che sia fuori entro stasera, Cristiano, aiutami… Tu devi aiutarmi!”
Cristiano prese in mano il cellulare e bestemmiò.
venerdì 5 gennaio 2007
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Il piccolo ciclista |
«Ma chi si crede di essere?»
Seduto accanto a me sul marciapiede, Manuel faceva rimbalzare a terra il Tango, con gesti rapidi, come una pallina da ping pong.
«Ma chi si crede di essere?» mi domandò nuovamente, quando lo rivide sfrecciare sulla strada di fronte a noi.
«Con quel casco aerodinamico, proprio non lo sopporto. Lo fa apposta a fare sempre questo giro, tanto per farsi vedere.»
Manuel si alzò con uno scatto, il pallone tra le mani, e in viso l'espressione più furba e cattiva che gli riuscì:
«Che ne dici se lo sistemiamo come si merita?»
«Cioè cosa vuoi fare?» domandai.
«Il tiro al bersaglio!» esclamò esultante e in una frazione di secondo piazzò la palla sul bordo del marciapiede, assumendo poi una buffa posizione sbilenca, con un pugno su un fianco, il peso del corpo tutto su una gamba: la sua idea di calciatore che si appresta a tirare un rigore.
«Non dirai sul serio?» esclamai sorpreso, ma sforzandomi di sogghignare. Mi alzai e presi a osservarlo, braccia incrociate.
Forse avrebbe pure tirato, ma senza l'intenzione di colpirlo davvero. Restammo in attesa, silenziosi, tesi, ma sempre mantenendo un sorriso: il mio di scherno, il suo di sfrontata spregiudicatezza. I nostri sguardi ora si incrociavano, ora scrutavano la curva in fondo alla strada, da dove ci aspettavamo riapparisse la bicicletta bianca da corsa. Sfrigolando sulla ghiaia finalmente sbucò, il telaio spruzzava fiotti di luce negli occhi. Manuel indossò una solenne maschera di concentrazione, fece qualche passo indietro, quindi prese la rincorsa. Il pallone trapassò la scia di vento che il piccolo ciclista si portava dietro, come un lungo mantello invisibile. Il mio sorriso si spalancò a una risata.
«Lo sapevo, lo sapevo che sei un vigliacco!!»
«Guarda che l'ho mancato per poco, deficiente, mica l'ho fatto apposta.»
«Sì, come no, e io mi chiamo Padre Pio»
«Bè allora provaci tu se pensi che sia così facile, idiota. O hai paura?»
«Per niente» mi schermii, ma non gli sfuggì la poca convinzione.
«Hai paura, hai paura!, sei un codardo, un cacasotto!» rideva, e si sforzava talmente che le vene del collo gli sporsero violacee e grosse come biro, finché tutto il viso prese un colorito rosso livido.
Il pallone era finito nel giardinetto pubblico oltre la strada, da qualche parte tra i giochi arrugginiti e il prato incolto. Mi incamminai per andare a recuperarlo, mentre Manuel continuava a insultarmi dimenandosi come un indemoniato. Si divertiva. Attraversando la strada sputai sulla mia ombra, furioso. Con un salto superai il marciapiede e iniziai a correre, ma rallentai quasi subito, non sapendo bene dove dirigermi. Finalmente lo trovai, tra le radici di un ficodindia mezzo divelto: file ordinate di formiche rosse già circumnavigavano il cuoio bianco e nero, rigandolo come sottili rivoli di sangue.
«Si è bucato?» gridò Manuel.
Schiacciai il pallone tra le mani e il petto.
«No!» risposi.
Tutta la determinazione e la collera mi avevano già abbandonato. Tornai indietro a passi lenti, strizzando gli occhi urtati dal sole. Pensavo a un modo dignitoso per svignarmela e lasciarlo con le sue follie.
Manuel non mi arrivava al mento, era esile di costituzione e accanto a me, con le mie ossa voluminose, le mani enormi, poteva forse dare l'idea di un giocattolo, che potessi ripiegare e riporre a mio piacimento nello zaino. Era un parolaio dalla comicità demenziale, che impressionava e divertiva, ma essenzialmente innocuo. Eppure, quando gli prendeva quella frenesia, quella sua smania di avere la meglio, se non con la forza, con l'esagerazione e gli eccessi, mi faceva paura; sapevo che era tutta una posa, che recitava, ma temevo che perdesse il controllo una volta o l'altra, che la pazzia e il male che millantava e prometteva divenissero reali. In quei momenti, il cerchio celeste dei suoi occhi galleggiava in una pozza rossa, parlava mostrando i denti stretti, digrignando, come se tra le labbra avesse una lama luccicante.
Il mantello mi svolazzò sul viso, svegliandomi dai pensieri.
«Che cazzo fai, sta' attento, per poco non ti fai mettere sotto da quel culatone! Ma hai visto che pezzo di merda? Continua a passare di qui, ci sta sfidando!» disse il mio amico. «Ora tocca a te, vediamo se non sei quel buono a nulla che tutti dicono.»
«Vaffanculo.»
«Non è così? Allora dimostralo, codardo.»
Non potevo più tirarmi indietro. Un po' per orgoglio, un po' per timore.
Piazzai la palla su un piccolo dosso del terrapieno, a qualche metro dal marciapiede. Guardavo il pallone e con la coda dell'occhio la curva in fondo alla strada. Tirai altissimo, appena avuta la certezza di non poterlo colpire.
Un applauso mi sferzò alle spalle.
«Ma bravo il mio campione! Van Basten dovrebbe baciarti i piedi! L'hai mancato almeno di dieci metri. E poi perché hai tirato così alto, idiota? Volevi prenderlo con un pallonetto, quando ripassa? Sei una merda.» Con un guizzo si fiondò verso la palla e dopo pochi istanti l'aveva già riposizionata sul bordo del marciapiede.
«Ora ti faccio vedere, femminuccia!»
«Vaffanculo. Vediamo se sai fare di meglio, sei solo bravo a sparare stronzate.»
Non rispose nulla, ritrovò lo stesso sorriso sfrontato e con la mano sul fianco attese immobile il bersaglio. Io fissavo il pallone, turbato. Udii la ghiaia scoppiettare e mi voltai verso lo scintillìo. Senza rincorsa, Manuel tirò di collo pieno, un tiro non forte, misurato, quasi avesse voluto adagiare il pallone a mezz'aria per far sì che fosse il casco bianco a urtarci contro, con tutta la potenza della sua velocità.
Un taglio netto separò la bicicletta dal ragazzino e la sua testa dal casco. Battè violentemente il capo inerme sullo spigolo del marciapiede, rivoltandosi quindi due o tre volte, mentre il Tango gli rimbalzava intorno con un rumore sordo, come un applauso rallentato.
Rimase a terra immobile, immobili noi con le bocche spalancate. Rimase in quella posizione come morto per un tempo interminabile, finché prima una mano, poi una gamba, infine tutto il corpo lentamente si animò. Si alzò tremando, senza dire niente, senza guardarci, solo tenendosi la testa con entrambe le mani, e andò via, lasciando tutto com'era: noi due agghiacciati, il casco bianco sulla strada, la bicicletta in equilibrio addosso a una siepe, come parcheggiata con cura.
Appena sparì dal nostro campo visivo, Manuel fuggì come un forsennato, gridandomi «scappa idiota, scappa!» Io ero troppo atterrito per muovermi e restai immobile ancora qualche minuto, a espellere con lenti respiri le emozioni violente. L’odore acre dell’asfalto bollito dal sole sapeva d’incenso. Raccolsi il casco e lo sistemai delicatamente sopra la bicicletta. Presi a palleggiare. Non volevo andar via: sarebbe stato come ammettere una colpa che non avevo. Non l'avevo tirata io la pallonata. Prima sì, ma senza la volontà di colpirlo, solo per gioco. Non avevo colpa se Manuel è fuori di testa e un delinquente, se qualcuno viene a dirmi qualcosa, che venga pure, non ho niente da nascondere.
Poco dopo comparve il ragazzino in lacrime, con accanto una signora. Usava la mano a mo’ di tesa, per ripararsi dal sole.
«Sei stati tu a far cadere mio figlio?» mi domandò dall’altro marciapiede. Nel tono, era già quasi un’accusa. Io palleggiai ancora per pochi lunghissimi secondi, per cercare di mostrare tranquillità e persino indifferenza, ma sentivo il cuore rimbalzare violentemente.
Quando finalmente mi decisi a rispondere, mi fermai: per educazione, ma soprattutto perché all’improvviso mi pervase la sensazione che ogni movimento avrebbe contraddetto le mie parole, dando loro un suono falso.
«No signora, non sono stato io,» negai.
La donna si chinò su suo figlio, il quale, piagnucolando e annuendo, sollevò la mano guantata e puntò il dito nella mia direzione.
«Ma eri qui, no? Allora dimmelo tu che l'hai visto, chi è stato,» mi intimò la madre.
«È stato Manuel Pani, io non c'entro signora, io non c’entro niente.»
«Quel ragazzino che abita là?» chiese, indicando la casa di Manuel.
«Sì, abita là» risposi, guardando altrove.
Se ne andarono, la signora reggendo con una mano la bicicletta, con l'altra fasciando la testa del figlio.
Il quartiere ora sembrava inabitato. I vapori dell’asfalto si mischiavano a tratti con sbuffi d’aria calda provenienti dal mare. Sentii prurito sul dorso di una mano: una formica vi vagava, incerta. Mi sfregai entrambe le mani, poi le braccia dove ne trovai altre: mi sentii improvvisamente pizzicare su tutto il corpo, cercai di liberarmene battendo con forza la maglietta sudata sulle spalle e sulla schiena nuda.