Una notte di un’estate calda in una sola frase a Milano negli anni settanta, un ragazzo.
Se c’è un lusso a non aver fratelli è una stanza tutta per sé, che poi era il mondo avventuroso oltre le quattro mura sempre pronto ad accoglierlo appena entrato per la porta laccata bianca su cui era appeso l’orso di pezza, come impiccato, ma vigile guardiano delle sue cose, confidente anche, talvolta supervisore dallo sguardo di plastica luccicante che si intuiva anche al buio della notte di poco rischiarata dalle luci della strada che si affacciavano in quell’estate calda che costringeva a lasciare aperti i vetri per far entrare un po’ di fresco accompagnato da quei rumori strani che proponevano le strade attorno con voci irruenti o discrete ad interrompere e accompagnare i sogni, sterzandone il corso, agitandoli, fornendo argomenti per scene di disarmante semplicità o storie surreali, come i filmeschi scontri di indiani rapidi a cavallo lungo luminose distese di polvere secca fra montagne di pietra rossa al tramonto e sparuti gruppi di case di legno solcate da strade di terra, qualche mucca, il saloon con i battenti che ancora si muovono cigolando come il tram di fuori, dentro il locale si intuiscono molte persone che ballano al suono della musica del bar all’angolo, un pianista, varie donnine dagli abiti gonfi e fruscianti, ai tavoli i giocatori di poker, avventori al bancone bevono il liquido ambrato che uno sporco sole rosso forma dentro il vetro grezzo e opaco, pulito velocemente con il solito straccio che l’uomo dietro il bancone tiene appoggiato sull’avambraccio e che usa anche per scacciare le mosche e per asciugarsi il sudore dal collo perché è proprio un’estate calda, comunque caldo che sia o meno, senza decisione ma nemmeno paura, con un balzo a piè pari atterra lo straniero sopra gli scalini legnosi e consumati fra la strada e i battenti ora immobili e posa le mani sopra di questi per spingerli ed entrare accompagnato dalla luce orizzontale del sole che sempre di più muore, una volta dentro indugia per farsi vedere, avanza lento e deciso due passi dopo due passi ritmati dagli stivali dal tacco pesante lungo le assi un poco imbarcate e scricchiolanti che portano al banco in fondo fra i tavoli dove i pistoleros seduti fanno silenzio e lo guardano, anche quelli di spalle girano la testa per vedere chi è colui che da quelle parti forse non ha messo mai piede, ma la cui faccia tutti hanno vista appesa nell’ufficio dello sceriffo con sotto una cifra dai tanti zeri, ed i passi da due si fanno quattro per diventare cinque e poi fermarsi perché il banco è a portata di gomiti, si toglie dalla testa il cappello dalla larga tesa, lo appoggia rovescio per fargli prendere aria ed asciugarne i bordi scuri intrisi di sudore, il tutto sempre in un silenzio irreale interrotto dal solo cigolio dei battenti che continuano ad oscillare ogni tanto al suono del nuovo tram che viene da fuori attraverso la finestra aperta: “il solito”, come il solito se mai era stato lì dentro? Ma è la frase giusta da dire in un posto come questo ed il barista, che deve averne viste lui, non si scompiglia e piglia scegliendolo con cura un bicchiere ancora bagnato con la testa all’ingiù fra gli altri bicchieri tutti uguali, lo asciuga col solito straccio formando più aloni che altro e lo pone sotto lo sguardo di lui che punta verso il basso perché si può permettere di badare a se stesso senza paura di chiunque possa mai stare lì dentro, dalla bottiglia ambrata, quasi vuota, tutto il liquido si ritrova in quel bicchiere: “non è giornata per bere quest’alcol dal sapore di piscio, aprine una nuova, questo ti può convincere” e tiene fra l’indice ed il medio una moneta comparsa dal nulla, magico prestigiatore, e con un guizzo delle dita il disco di metallo sobbalza, cade sul bancone e rotea, prima forte e poi con l’andatura di un ubriaco perso, per fermarsi come per miracolo in piedi, e il silenzio, sembra impossibile, diventa ancora più forte perché la moneta così ferma pare abbia bloccato anche il tempo, ma è solo un attimo e questa scompare fra le mani del barista che già ha preso una bottiglia nuova per aprirla con una dimestichezza allenata e mentre versa un altro bicchiere si spande l’odore di quel liquido forte, uso a starsene chiuso e libero ora di andarsene cavalcando l’aria pesante e rapito di un poco dalle narici del forestiero che prende il bicchiere con entrambe le mani e butta giù tutto in un solo gesto come fosse una scodella di latte la mattina quando mamma ha preparato la colazione, biscotti e marmellata, poi si gira e poggia i gomiti all’indietro sul bancone per guardare dritto in viso l’uomo che è venuto a trovare quel pomeriggio sul tardi, ma il sole finalmente s’è andato a nascondersi dietro la collina e tutto diventa scuro rischiarato da qualche semplice lume già acceso lungo le pareti e su qualche tavolo senza metodo, dall’altro lato della sala si alza come chiamato un tale che solo ora entra in scena, fa scivolare indietro la sedia con il rumore di un portone che si chiude qualche palazzo più in là, tiene le mani poggiate su due pistole luccicanti con il calcio in madreperla lungo la cintura grossa e pesante circondata da pallottole appese che formano una corona ad indicare che lui è il re di quella terra desolata e sanzadio, nessuna mossa dallo straniero: “Versane altri due”, ma del barista, prestigiatore anche lui, non c’è più traccia e sono spariti tutti salvo quei due, comprese le ballerine che comunque da un pezzo non ballano più, così il pianista non fa più musica perché il bar all’angolo ha chiuso, allora lo straniero prende due bicchieri e la bottiglia e muove lento altri due passi verso il re, questi s’avvicina pure lui, solo un tavolo li separa, si siedono entrambi, la bottiglia viene posata in mezzo e i due bicchieri a portata di mano e riempiti fino all’orlo e oltre senza grazia con un solo movimento da uno all’altro formando fra questi una scia scura di alcol lungo il tavolo abituato a bere pure lui, c’è un mazzo di carte, lo straniero lo prende e mescola, il re allenta la presa alle pistole, poi prende il suo bicchiere attento a non farlo sgocciolare che se sporca non vuole trovarsi a pulire, perché chi sporca pulisce, la mamma lo dice sempre e lo straniero divide il mazzo esattamente a metà ed una di queste la offre all’altro perché inizi la più importante partita di rubamazzo che il west abbia mai visto neppure al cinema, una partita che dura un’eternità, con vicende alterne, mosse dal destino delle carte ignote, gocce di sudore scivolano lungo la fronte ed il collo di entrambi e pure sul cuscino, ma l’attenzione non s’interrompe mai perché il gioco è avvincente, lo straniero, il re e l’orso di pezza fanno fatica a seguire veloci le carte che si voltano al centro e vengono prese dall’uno o dall’altro per essere messe sotto, lo straniero, il suo mazzo è numeroso come gli ultimi sparuti indiani che si incontrano ancora nella valle o come i soldatini ancora integri nascosti sotto il letto, mente quello del re ricorda le mandrie di bufali che migrano numerose come i tifosi che vanno allo stadio la domenica che quest’anno forse vinciamo lo scudetto, ma imprevista la fortuna gira e carta dopo carta allo straniero spunta il sorriso di chi sa di vincere perché le giornate al termine del campionato sono poche e molti i punti di distacco, così la partita si chiude, il re si alza sconfitto, prende bicchieri e bottiglia andando al banco per riporli, qui trova lo straccio, ripercorre i suoi passi, pulisce il tavolo così mamma non si arrabbia, poi s’avvia fuori: “anche questa volta non ti metto dentro, ma chissà , forse fra un anno vinco io” cigolano di nuovo i battenti, è l’ultimo tram della notte ormai giorno, come il giorno è arrivato nella valle, il re si ritrova il solito straccio con cui lustra la stella al petto luccicante al nuovo sole di quell’estate calda.
3 commenti:
Tanto per citare un bel libro forse poco considerato: City di Baricco
Davvero un buon racconto.
Complementi per il blog, molto interessante, così come l'articolo... la foto è anche splendida. Mi piace la fotografia, complementi ancora!
Saluti di Enrica Prestiti
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